THANK GOD WE ARE SOCIAL #318
C’è chi è ancora sull’autobus, chi sul tram, chi invece è già al lavoro.
Cominciamo a notare che Facebook si popola di spezzoni dei film di Fantozzi, amici che cambiano la foto di profilo con un primo piano del ragioner Ugo, nuvolette che appaiono sulle copertine di molti.
Nell’arco di pochi secondi abbiamo già capito tutto, quel diffondersi a macchia d’olio di foto di Paolo Villaggio può significare solo una cosa.
Sull’autobus, sul tram, o anche al lavoro, ci ritroviamo improvvisamente tutti un po’ più soli.
Ma nell’istante che segue questa tristezza inaspettata, siamo già su Google Images o su YouTube a cercare anche noi lo spezzone o il primo piano del ragioner Ugo da pubblicare.
E poi minuti infiniti a confezionare la frase di accompagnamento più giusta, che faccia capire che “con Fantozzi io ci sono cresciuto”, che “Villaggio non era solo Fantozzi”, che “voi che ne sapete di Fracchia e del professor Kranz”.
Sono dinamiche a cui siamo abituati e che ormai non ci scandalizzano più di tanto.
È il nostro modo per dimostrare affetto, partecipazione, vicinanza, per dire a tutti cosa stiamo provando e per alimentare quella massa critica che non esce di casa ma fa comunque sentire la propria voce.
E non serve essere critici, perché forse è grazie a questo movimento, a questa ricerca del video di repertorio che fino al giorno prima contava meno di 1.000 visualizzazioni, che qualcuno quel 3 luglio è andato su Amazon Prime e ha comprato un libro di Paolo Villaggio.
Proviamo poi per un istante a pensare cosa sarebbe successo se nessuno di noi quel 3 luglio avesse pubblicato qualcosa. I giornali avrebbero comunque scritto “L’Italia piange Paolo Villaggio”? I nostri amici avrebbero pensato che siamo improvvisamente diventati un branco di cinici insensibili? Chissà.
Pomeriggio del 3 luglio 2017.
Sale riunioni, listening room, sguardi tra l’indeciso e il perplesso.
Dopo qualche ora di silenzio, di riunioni in cui si decide se e come cavalcare questo momento (la morte di Villaggio è sì un lutto nazionale, ma è anche un trending topic), i brand iniziano timidamente a pubblicare dei contenuti che celebrano a modo loro l’icona che se n’è andata.
I brand sanno che è un momento delicato, sanno che basta una parola di troppo per generare l’ira della community. Ma noi siamo pronti a tutto, abbiamo visto di peggio.
Ancora una volta, la scomparsa di un personaggio pubblico travalica la dimensione classica del lutto e diventa un’occasione per esserci, davanti alla quale è difficile restare indifferenti. Un’occasione per far sentire la propria voce, sperando emerga nel mare magnum di contenuti, e per non essere da meno in questa corsa al presenzialismo, la quotidiana timbratura di un cartellino che alimenta gli engagement rate.
I tempi sono cambiati, è una frase così ovvia da sembrare anacronistica.
Da un lato, la possibilità per un brand di potersi inserire in qualsiasi conversazione rappresenta forse il più grande vantaggio portato dai Social Network. Dall’altro, l’esperienza ci dimostra che non sempre i Brand devono partecipare a tutte le conversazioni, che a volte anche “il silenzio è contenuto”.
Se da un lato la diffusione e la condivisione real-time delle notizie non ci spaventa più, anzi soffriamo se qualcuno ci dice che la nostra notizia è #old, dall’altro l’elaborazione di un lutto ci porta a scontrarci con la natura di piattaforme che dell’engagement hanno fatto la loro fortuna, e che hanno tra gli obiettivi principali quello di divertirci e intrattenerci, temi che con la morte difficilmente vanno a braccetto.
Forse un giorno (non troppo lontano) non parleremo più di elaborazione del lutto ma di condivisione del lutto.
Ai post l’ardua sentenza.