THANK GOD WE ARE SOCIAL #323
Iniziamo questo TGWAS con un breve – ma intenso – tuffo nel passato.
Siamo tra i banchi di scuola. Tra un’ora di lezione e un’altra, ci dedichiamo alla scrittura minuziosa di bigliettini da passare ai compagni.
Da un bigliettino, a volte anche anonimo, nascono i primi litigi, le prime coppie e i primi pettegolezzi.
Flash-forward di [inserire un numero più o meno severo] anni. Nell’era dei social media, i bigliettini sono stati sostituiti da app di messaging e l’anonimato è – apparentemente – un po’ meno immediato. I litigi, gli amori e i pettegolezzi, invece continuano indisturbati.
È l’estate 2017 e le bacheche Facebook di tutti gli italiani sono inondate di screenshot di messaggi ricevuti su una nuova app: Sarahah.
Di cosa si tratta?
Sarahah è stata sviluppata dal programmatore arabo Zain al-Abidin Tawfiq con il preciso obiettivo di essere utilizzata negli ambienti lavorativi, per facilitare il processo di review dei dipendenti.
Il nome dell’app significa, infatti, “onestà” in lingua araba: attraverso dei messaggi anonimi scritti dai colleghi, i singoli dipendenti possono avere un’idea generale di come sono avvertiti all’interno dell’azienda.
Basta solo qualche mese, l’app esce dagli uffici e diventa un fenomeno di massa. Dopo aver conquistato il Libano e l’Egitto, sbarca il 13 luglio sull’App Store britannico e in pochissimo tempo conquista il primo posto tra le più scaricate nel paese. Complice anche un accordo con Snapchat, la curiosità per i messaggi anonimi si sposta negli USA, in Canada e arriva anche in Italia.
I rischi dell’anonimato
Sebbene i numeri raggiunti siano interessanti, il principio dietro l’app non è una novità.
Sicuramente tutti voi ricorderete Ask.fm, ancora prima Whisper, Yik Yak e After School. Tutte queste applicazioni, o siti web, si basavano sull’anonimato dei partecipanti e sulla condivisione di messaggi, segreti e opinioni.
Il triste epilogo è un’altra delle cose che queste app hanno in comune. Nel caso di Ask.fm, poi, si è trattato di una fine piuttosto amara.
È interessante notare come, inserendo il nome di Sarahah sul Google Trends, la prima ricerca correlata è il cyberbulling.
Dopo la diffusione capillare di Sarahah, molte fonti hanno preso a etichettare l’app come un “breeding ground for hate”, ossia terreno fertile per l’odio.
Niente più di quanto successo nei casi precedenti: anche Sarahah nelle mani sbagliate può diventare un veicolo di commenti razzisti, minacce e bullismo.
In uno scenario forse esageratamente catastrofico, esistono anche molti casi felici, in cui l’app diverte gli utenti, e aiuta ad avere il coraggio di esprimere per iscritto quello che spesso a parole non si ha il coraggio di dire.