THANK GOD WE ARE SOCIAL #344
Siete di ritorno dal vostro ultimo viaggio, oppure semplicemente vi trovate davanti ad un panorama, o un volto mediamente interessante. Non importa cosa o quando, la vostra corsa ai like è sempre in atto e il vostro PED brama nuovi contenuti da dimenticare tra qualche minuto.
Prima di pubblicare l’ennesimo quadrato di pixel e improvvisarsi copywriter, la vostra anima da fotografo vi richiede un ultimo sforzo: la post produzione.
Oggi non dovete combattere con la camera oscura o con complicate sessioni in photoshop, l’unica cosa che dovete fare è scegliere uno tra gli infiniti filtri che Instagram o App come VSCO vi mettono a disposizione.
Ma come vengono realizzati questi filtri? Perché tendono a saturare i colori e rendere i neri più grigi, a privilegiare i colori caldi o ad aggiungere la tanto amata grana?
Il discorso affonda le radici in una complessa e districata scienza denominata “Teoria del colore”. Questa di sicuro non è la sede per parlarne, ma, riducendo il tutto ad una semplice comparazione, è facile ritrovare le nuances dei tanto famosi CLAREDON e JUNO di Instagram nei vecchi scatti di famiglia. realizzati con Fuji Velvia o Kodak Portra. Pellicole ormai utilizzate da pochi professionisti e da un’infinita schiera di appassionati intenti a riportare in vita il triacetato all’urlo di #filmisnotdead o #buyfilmnotmegapixel.
Ma perché emulare vecchi mezzi ormai in semidisuso, alterando i colori molto più veritieri che i nostri moderni sensori digitali sono capaci di realizzare?
Come accade per un qualsiasi post su Instagram, la vecchia foto cartacea stampata dal negativo passa di mano in mano, di “feed in feed” nelle riunioni familiari. I polpastrelli di solito sfruttati per lasciare qualche like, possono sentire l’emulsione che ha impresso la luce sul supporto; gli occhi si rilassano dinnanzi a quei colori o troppo caldi all’interno o troppo saturi all’esterno, a quella granulosità dell’immagine che la rende imperfetta e dai contorni poco definiti; il tutto sembra essere più “vero” e vivo.
L’analogico è un processo che trasforma la realtà in qualcosa di analogo, non identico. Nella fotografia, la pellicola, grazie ad una infinita gamma di peculiarità, è capace di alterare l’immagine catturata. In base alla sua scadenza si possono ottenere diversi effetti cromatici, il tutto in maniera imprevedibile e quasi esclusivamente casuale. Forse è questa imprevedibilità che rende lo scatto più godibile rispetto ad una fredda rappresentazione della realtà.
Anche le tendenze giocano un grande ruolo in questo ritorno, oggi di sicuro scattare in analogico è di forte tendenza, quindi per chi non ha la voglia o la pazienza di recuperare una vecchia analogica e sviluppare i rullini, il desiderio può essere placato con un semplice filtro.
Di sicuro per chi è nato negli anni ‘90 il fattore emotivo gioca un ruolo non indifferente; rendere lo scatto più simile a quello visto in un vecchio album lo avvicina a quelli che sono i nostri ricordi. Per coloro che invece non conoscono nemmeno quale sia la forma di un rullino, il discorso si fa più complesso, forse le sensazioni restituite da quei colori sono assimilabili ad una sorta di effetto nostalgia per qualcosa che non si è vissuto.
ph credits Raffaele Alicino, Alberto Monti