THANK GOD WE ARE SOCIAL #355
C’è un microfono.
Davanti a lei, ottocentomila persone.
“Six minutes and about twenty seconds”, dice.
E così ha inizio.
La ragazza è Emma Gonzalez e ha 18 anni.
Il suo viso è già diventato un’icona: cubana, rasata, gli occhi profondi e segnati, il look da bad girl, con il giubbetto coperto di toppe e spillette.
Prima della sparatoria alla Parkland High School non aveva un account su Twitter: ora ha un milione e mezzo di follower, più dell’RNA.
Emma è diventata il volto del movimento @neveragainMSD, “For survivors of the Stoneman Douglas Shooting, by survivors of the Stoneman Douglas Shooting”, che ha riempito le strade a Washington e in tante altre città degli Stati Uniti.
Il suo scopo, insieme ad Alfonso Calderon, Delaney Tarr, Sarah Chadwick, Jaclyn Corin, David Hogg, Cameron Kasky, Alex Wind e degli altri ragazzi del movimento, è chiedere chiedere alle assemblee legislative statali e federali di scrivere e approvare leggi che limitino fortemente l’accesso alle armi, per prevenire futuri “incidenti”. Nelle scuole, nei supermercati, per le strade, tra i bianchi, i neri, i latinos, i poveri che si ammazzano nei vicoli e i ricchi che falciano i bambini nelle scuole.
Il giorno dopo il massacro nella loro high school, ognuno di loro ha deciso di “fare qualcosa”. Poi si sono incontrati, e quel qualcosa è diventato un progetto comune, i messaggi sui canali privati, i gruppi, le pagine ufficiali, le conferenze, le comparsate alla radio e in tv, e le marce.
In pochi giorni, ognuno dei ragazzi ha attaccato pubblicamente, dati alla mano, la National Rifle Association e tutti i membri del Congresso che dall’RNA hanno ricevuto contributi negli scorsi anni.
Quello che è successo lo scorso San Valentino, è solo una nuova tacca nella tragica cronologia delle stragi degli ultimi anni. Solo nelle High School, dal 2000, ci sono state 43 sparatorie su 50 stati, in cui sono morti circa 250 studenti.
Forse non lo sapete, ma l’arma preferita dagli attentatori è il fucile d’assalto AR-15. I proiettili sparati sono minuscoli, praticamente chiodini di 4 grammi, e viaggiano tre volte più veloci del suono. Quando entrano in contatto con un corpo umano, il carico di energia cinetica scava un buco nella carne, facendo collassare tessuti, ossa, nervi, organi. È uno spazio vuoto che per la forza elastica si chiude di colpo, portandosi dietro il resto. L’AR-15 è una macchina di morte perfetta, l’arma standard in ogni guerra americana post-Vietnam. Un diciassettenne negli USA può procurarsene uno in un lasso di tempo che va dai 7 ai 40 minuti: per una pistola ci sono tempi d’attesa più lunghi (ben tre giorni, in Florida).
Tutto questo, Emma e i suoi compagni lo sanno bene, e vogliono cambiarlo.
Prima di loro, in molti hanno combattuto la stessa battaglia. Genitori, parenti, amici, compagni di ragazzi morti nelle scuole. Senza risultati rilevanti.
Questa volta andrà diversamente? Difficile dirlo.
È una protesta pacifica, con un unico scopo preciso.
Usa un linguaggio semplice, e dei mezzi che tempo fa neanche esistevano: la punta dell’iceberg è quello che vediamo in tv e sui giornali, il resto è online, com’è giusto che sia.
È un modello pop, intelligente, ben costruito, supportato da celebrities come Oprah Winfrey, Paul McCartney, Justin Bieber, Steven Spielberg, Justin Timberlake, George Clooney, Miley Cyrus e Ariana Grande.
Qui faccio una pausa. Guardo un’altra volta il video del discorso a Washington, e penso che difficilmente mi capiterà di vedere qualcosa di più potente quest’anno.
Io a diciott’anni cercavo di combattere con l’acne, e questa ragazza se ne sta in piedi di fronte a una delle più potenti lobby del mondo.
E ancora: di fonte a un Paese che nasce e muore con le armi in mano, e ne va fiero.
Guardate bene.
Questo è il miglior pezzo di comunicazione che vedrete quest’anno.
E non è uno spot. Non è un’affissione. È un discorso di una ragazza a una nazione.
March for our lives è la punta dell’iceberg di una campagna online concepita in una manciata di giorni, e già paragonabile per potenzialità a quella per l’elezione di Obama di qualche anno fa.
È una campagna che non vincerà premi. Chi l’ha creata non passeggerà con un drink le passerelle di Cannes, ma avrà conosciuto il rumore di una scarica di AR-15 nel corridoio di una scuola.
È una campagna costruita sulla rabbia, per questo non ci sono adulti a guidarla: solo due universitari a fare da supervisori, a cui toccano i compiti “da maggiorenni” (la firma di contratti, di collaborazioni e polizze). La mamma di Alex Wind sostiene che che durante un incontro di #neveragain i genitori si erano offerti di aiutarli in qualche modo, e i ragazzi hanno chiesto loro di ordinare le pizze.
Molti dei ragazzi coinvolti non possono comprarsi una birra, eppure stanno costruendo qualcosa di enorme, usando i mezzi che conoscono meglio, in una nazione che conta il 4% della popolazione mondiale e il 42% della produzione delle armi. “Gli adulti ci dicono ‘staccatevi dai telefoni’, ma i social network sono la nostra arma. Senza i social network il movimento non sarebbe cresciuto così rapidamente” dice Jaclyn Corin alla giornalista del Time che dedica la copertina ai ragazzi.
Su Facebook, Instagram, Twitter non si limitano a dire “qualcuno cambi qualcosa”: puntano il dito, fanno nomi e cognomi, dicono “il Governatore Rick Scott, il Senatore Marco Rubio, il Presidente Donald Trump, non hanno fatto niente, non stanno facendo niente.” Le infinite chiacchiere che si sono accumulate sul tema da anni sono riassunte in quell’unica frase che oggi si legge sugli adesivi, sulle magliette, sui comunicati stampa: We call BS. Sono tutte cazzate, e ve lo stiamo dimostrando.
#NeverAgain never again will this happen in Parkland. Never again will it happen anywhere. Never again. Join the movement. Be the movement.
— #NeverAgain (@NeverAgainMSD) 16 febbraio 2018
#neveragain è un’associazione multirazziale, e i suoi esponenti stanno costruendo campagne costruite ad hoc su target diversi, dalle metropoli alle periferie: stanno capitalizzando la diversità di culture e di linguaggi, sostanziati da una comunicazione online capillare. Stanno parlando con la gente.
Il giorno del discorso a Washington, l’NRA non ha scritto niente su Twitter.
Di solito capita solo subito dopo una sparatoria.
Emma, invece, ha parlato dei suoi amici caduti sotto la follia di un ragazzino squilibrato che non doveva avere in mano un’arma. Se qualcuno di voi ha mai parlato davanti a un pubblico, immagini cosa significa raccontare degli amici morti a scuola, di fronte a dieci volte il numero di persone presenti al più grande concerto a cui siete stati.
Emma ha costruito un discorso della durata di 6 minuti e 20 secondi: il tempo della sparatoria di Parkland. Eccola, la sua prima idea.
Questa è la trascrizione del suo discorso.
“Six minutes and twenty seconds with an AR-15 and my friend Carmen would never complain to me about piano practice. Aaron Feis would never call Kira, ‘Miss Sunshine.’ Alex Schachter would never walk into school with his brother Ryan. Scott Beigel would never joke around with Cameron at camp. Helena Ramsey would never hang out after school with Max. Gina Montalto would never wave to her friend Liam at lunch. Joaquin Oliver would never play basketball with Sam or Dylan. Alaina Petty would never. Cara Loughran would never. Chris Hixon would never. Luke Hoyer would never. Martin Duque Anguiano would never. Peter Wang would never. Alyssa Alhadeff would never. Jamie Guttenberg would never. Meadow Pollack would never.”
Tutti quei would never, sospesi nell’aria.
Poi ha fatto qualcosa di inaspettato: è rimasta in silenzio. E questa era la seconda idea.
Per quattro minuti, Emma non ha detto niente di fronte a quasi un milione di persone.
Se non lo avete ancora fatto, guardate il video qui sotto, per intero.
Guardatelo, il silenzio: la migliore forma di comunicazione del 2018.
Partono dei cori. Poi gli applausi, come fuochi isolati. Le persone non sanno più come reagire al silenzio, ci si schiantano addosso e si guardano intorno inebetite. Si chiedono se Emma non riesca più a parlare, e invece lei non vuole parlare. E allora una folla messa di fronte al silenzio reagisce come un’unica persona. Non con tristezza, o con disperazione, ma con qualcosa di ancora più potente: uno sterminato imbarazzo. Quello di una popolazione che ha fatto finta di niente e continua a farlo.
In quattro minuti di silenzio, gli americani hanno guardato Emma e hanno visto loro stessi in ginocchio, e i loro fratelli e fidanzati e figli. Hanno visto quello che non hanno fatto.
Poi il silenzio si è rotto e lei ha concluso:
“Since the time that I came out here, it has been six minutes and twenty seconds. The shooter has ceased shooting and will soon abandon his rifle, blend in with the students as they escape and walk free for an hour before arrest. Fight for your life before it’s somebody else’s job.”
Nessuno difenderà nessuno: dovete pensarci voi. I grandi hanno fallito.
C’è un’intera generazione che deve riprendere in mano la propria vita e tenerla stretta, per sopravvivere all’indifferenza dei papà, delle mamme, dei nonni. Per evitare quel vuoto che si richiude di schianto, portandosi dietro tutto.
È la generazione digitale che riempie le strade di persone vere.
Usa i silenzi per parlare.
E tiene in mano l’arma più potente del mondo.