THANK GOD WE ARE SOCIAL #413

Social Thinking
stefano.cucinotta

Come si fa a non parlare di Game of Thrones oggi?

Domani (lunedì in Italia) si chiuderà una storia iniziata otto anni fa e bla bla bla. E invece no, non ne parlerò in questa sede. Se ne scrive fin troppo, non trovate? Ho letto parecchie cose in questi giorni che mi hanno portato qui, e sono sicuro che ci sarete inciampati anche voi. Com’è possibile che la serie più amata al mondo sembri improvvisamente la più odiata?
Ok, ok, parliamoci chiaro: in questo uggioso sabato milanese GoT non è che un mero pretesto.

Scriverò dell’odio: quello che ogni giorno rovesciamo in Rete superando ogni limite razionale e sfociando nell’aggressione verbale, nell’attacco diretto, nello scontro reiterato.
L’odio che in questa primavera instabile per Game of Thrones è diventato un trend. L’odio delle cose odiate e di quelle un tempo amate. Delle vostre relazioni, e cose così. Allacciatevi le cinture.

L’odio non esiste da sempre.
A livello evolutivo, i primi ominidi avevano un cervello che gli consentiva di provare le emozioni di base, giusto quelle per salvarsi la pellaccia. La paura, in primis. In migliaia di anni, però, il cervello è cambiato, e la quantità di stimoli da elaborare – con le conseguenti reazioni – si sono moltiplicati. Quindi grazie, signora corteccia cerebrale: quello che è nato come istinto di sopravvivenza si è trasformato in una brutta bestia che gli scienziati chiamano “sistema affettivo primario della collera”. Un viaggio che parte dall’istinto vitale, fa una fermata alla stazione Rabbia e ha il suo capolinea nell’Odio. Chi lo avrebbe detto? L’odio come forma più evoluta della vita.

L’odio costa energia. Un sacco di energia: almeno quanto l’amore.
E se potenzialmente la capacità di odiare non è negativa di per sé, richiede un enorme investimento energetico spesso senza una direzione precisa. È come una centrale nucleare che alimenta una mostra di presepi.

Come l’amore, l’odio richiede costanza. Se un fan (o fanboy, che è la stessa cosa ma improvvisamente fa più fico) gioisce dei successi del proprio oggetto di attenzione, l’hater ne ha a cuore l’infelicità. Si trasforma a tutti gli effetti in un reminder vivente: “Ehilà, ricordati che anche se c’è il sole e ti stai divertendo come un pazzo al concerto, qui c’è sempre qualcuno che ti disprezza. Saluti.” Vive per alimentare l’infelicità di un individuo o di un gruppo, anche quando l’oggetto dell’odio è un’opera inanimata: in quel caso tutta l’attenzione è dedicata a chi ha concepito l’opera e soprattutto a chi la ama.

Kierkegaard, ancora lontano dalle dinamiche di Facebook e Instagram, non lo considerava un sentimento analogo all’invidia: per lui l’odio era a tutti gli effetti una dipendenza. L’hater è convinto che il mondo (o parte di esso: un personaggio, una categoria, un film) non sia alla sua altezza. Lo ha tradito, nello spirito o negli ideali, ma – rullo di tamburi – non gli interessa migliorarlo, o lo ritiene impossibile. L’unica azione possibile è ricorrere all’odio, che paradossalmente è quanto di più lontano dal cambiamento. Esiste perché odia, e allo stesso tempo dipende dall’oggetto odiato. Lo vedete il serpentone che si mangia la coda?

L’odio è dentro di noi. Come l’outsider in classe, se ne sta muto e seduto in fondo. Poi arriva il giorno di autogestione e qualcuno decide che l’ufficio del preside merita un vetro rotto. Bam. È in prima fila a distruggere. È una fuga di gas in una stanza con una fiammella libera. Ora immaginate che la stanza sia un Paese intero, e che la fiammella libera sia un latente razzismo, che tanto non ci facciamo mancare nulla. Il gas può essere una corrente di pensiero libera di esprimersi, magari al potere. Mettiamo di essere nel 1938 e di sentir pronunciare al sig. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della Razza, la frase “Finalmente è stato messo in soffitta il dogma dell’uguaglianza.” Finalmente.

Dall’articolo sull’Huffington Post di qualche mese fa:

“Cresce la xenofobia, cresce la diffidenza verso l’altro. Cosa succederebbe se qualcuno oggi riaffermasse tale concetto? Quanti, in Italia, si sentirebbero liberati? Ho la sensazione, purtroppo, che questo momento non sia troppo lontano.”

L’odio crea coesione. E le coesioni creano maggioranza. Se l’amore sembra uno svolazzo astratto, troppo effimero per smuovere la massa, l’odio è un collante naturale. E come tale può essere strumentalizzato.

Vi sembra esagerato? Spostiamoci nel 2018. Mentre stavamo sperimentando il filtro con gli occhioni e il nasino da gatto, la Vox Diritti stilava un rapporto sull’odio online (la Mappa dell’Intolleranza), con risultati sorprendenti. Limitandoci a Twitter, osserviamo come i contenuti contro gli ebrei siano saliti a 15.400 contro i 6.700 del 2016. I migranti non rimangono centro indietro, con 73.390 messaggi d’odio raccolti tra 2017 e 2018, contro i timidi 38.000 del 2016. I cugini musulmani tengono testa, con 64.934 tweet (quasi 3 volte in più rispetto a due anni prima), ma lo scettro rimane alla categoria più odiata per eccellenza: le donne. Le donne sono odiate dagli uomini e, in percentuali minori, anche dalle altre donne. Stiamo parlando di 326.040 tweet d’odio in un anno, pari a tutti gli abitanti del Molise, più 10.000 turisti di passaggio.

Amnesty International ha poi analizzato i dati raccolti attraverso il progetto Troll Patrol, che ha coinvolto 6500 politiche e giornaliste provenienti da Stati Uniti e Regno Unito, tra cui professioniste del New York Times, del Guardian e del Daily Mail. In questo caso, i tweet violenti o abusivi indirizzati alle volontarie sono stati il 7,1%, per un totale di più di un milione di messaggi (1 ogni 30 secondi).

L’odio è aumentato grazie a Internet? Probabilmente no. Ha solo trovato una nuova casa accogliente. D’altronde la confortevole coperta del (quasi) anonimato è troppo invitante, i limiti si fanno flessibili, le regole della convivenza civile si sfocano. E l’eye contact, signori, fa tutta la differenza. Di nuovo si torna nel brodo primordiale: senza contatto visivo siamo tutti più gagliardi.

L’odio, dalla sua, ha un paio di caratteristiche che lo rendono estremamente sexy. È facile da praticare e riceve consensi immediati. Provate a salire su un autobus esclamando: “Che bella ‘sta città quando c’è il sole!” Riceverete un paio di sguardi distratti e qualcuno, aggrottando la fronte, penserà che siete pazzi come cammelli. Ora rifate il test in una giornata uggiosa dicendo: “La odio questa città quando piove”: una vecchietta vi sorriderà, qualcuno farà sì con la testa e magari – colpo di coda – il vicino di posto sussurrerà “a chi lo dice”: ed ecco i vostri like e i cuoricini analogici.

Lamentarsi è più semplice che fare una critica costruttiva. Ma alla lunga è letteralmente dannoso per il cervello, perché ne modella la forma. Traccia le strade del pensiero, e da quelle non si torna indietro. Per l’odio è lo stesso, all’ennesima potenza. È più facile parlare del bicchiere mezzo vuoto, è più divertente, i personaggi felici o soddisfatti sono quelli più piatti, le coppie innamorate sono noiose. L’odio invece ci avvicina, ci rende simili. Forse miserabili, ma vicini. Ci fa sentire capiti, o quantomeno ascoltati. E caspita: ci fa parlare, perché aumenta improvvisamente il nostro senso critico. È un’illusione? Certo che lo è. Non conosciamo qualcosa di più, se la detestiamo. Eppure non vediamo l’ora di parlarne. Quale altra emozione ha la stessa potenza?

Altro asso nella manica: l’odio è un picco estremo, non una via di mezzo. E caspita, quanto ci piacciono gli estremi. Con una via di mezzo non ci scrivi il titolo di un articolo: “La nuova serie Netflix non è male. Ci sta.” Macché. Siamo avidi di “La migliore serie di questa settimana” oppure, molto più spesso, “Le cose non sono mai andate peggio per Game of Thrones.” E quei titoli (spesso solo quelli, perché le nostre frenetiche vite digitali non ci portano a leggere gli articoli per intero) modellano più o meno inconsapevolmente i nostri prossimi commenti e – salto quantico – le nostre vere opinioni. La bubble comanda: se si carica d’odio, ci sentiremo improvvisamente più carichi pure noi. “Non sono mai stato così disgustato da qualcosa in vita mia” vincerà sempre su “Ho visto di peggio.”

Odiamo quello che non capiamo. Odiamo quello che capiamo poco. Odiamo quello che è diverso, o potenzialmente diverso da noi. Odiamo quello che ci fa paura. Odiamo quello che non ricambia il nostro interesse. Odiamo quello che tradisce le nostre aspettative. Odiamo i dettagli o le masse. Odiamo in così tante sfumature passivo-aggressive che è diventato complicato elencarle.

Ma nella desolata landa dell’odio, online come offline, il posto d’onore è riservato alle persone (e alle cose) che un tempo amavamo.
Amare qualcosa ci toglie una fetta di libertà individuale. Amo il mio ragazzo, e cerco un compromesso per bilanciare i nostri interessi. Amo la danza, e ci dedico 15 anni di immensi sacrifici. Amo un film così tanto che investo tempo per rivederlo, denaro per blu ray, gadget, edizioni speciali e così via. Sono piani diversi e lungi da me generalizzare, ma il punto è comune: amare qualcosa ci fa rinunciare a qualcosa e ci rende vulnerabili. L’amore apre dei forellini che arrivano dritti dritti dentro di noi. E se per qualsiasi motivo la nostra fiducia crolla, o le nostre aspettative vengono tradite, i forellini diventano crepe, e improvvisamente siamo indifesi come i nostri antenati: è ancora la notte dei tempi, dobbiamo difenderci, e dobbiamo odiare.

Tuffo nella scienza: amore e odio attivano le stesse zone del cervello, dei posticini periferici che determinano l’intensità di un’emozione e l’oggetto correlato. Ma badate bene: solo intensità e oggetto, non la qualità dell’emozione. È solo a livello neurale che quest’eccitazione viene definita e, rullo di tamburi, più l’intensità è alta, più veloce può avvenire lo switch tra emozioni opposte. Quindi all’inizio provate qualcosa di forte, poi definite se è amore o odio. E la cosa può cambiare rapidamente. Ecco perché il sushi la prima volta vi ha fatto schifo, e la seconda volta ve ne siete innamorati. È molto più facile passare da “È la cosa più bella che abbia mai visto” a “Non voglio vederla mai più” rispetto allo scivolare morbidamente tra un “Niente male” e “Non un granché”. Già, quanto ci piacciono gli estremi.

Guardatevi intorno. Siete circondati da odiatori. E statisticamente se non ce ne sono molti nelle vicinanze, gli hater siete voi.

Nel 2017 un regista norvegese, Kyrre Lien, ha pubblicato online “The Internet Warriors”, un docu-film sugli hater. Lien ha raccolto migliaia di commenti, e ha contattato di persona quegli utenti che online avevano dato il peggio di sé su temi sociali, riguardo a politica, immigrazione, spaziando dall’intolleranza al razzismo, dall’omofobia agli estremismi più surreali. Il regista ha chiesto a ognuno di loro di partecipare attivamente al progetto: neanche a dirlo, la maggioranza dei contattati ha preferito declinare l’invito.
Tutti gli altri però sono diventati i protagonisti di una serie di brevi interviste spesso spiazzanti. Ne emerge un’umanità profondamente ferita, delusa, sgretolata: i ritratti degli hater non ce li fanno odiare, anzi. Paradossalmente, l’unica cosa che li unisce da un capo all’altro del mondo è una profonda solitudine, difficile da colmare.
Ci raccontano uno spaccato di vita partendo proprio dal loro messaggio scritto, e senza traccia di pentimento. I messaggi d’odio non sono esternazioni buttate giù d’istinto, ma spesso sono la punta dell’iceberg di qualcosa di molto più profondo. Questo è un altro aspetto difficile da digerire, immersi come siamo negli automatismi dell’errore/pentimento/redenzione. Le persone non cambiano idea. Molto spesso, non cambiano affatto.

Ci sono gli hater d’impulso, quelli sgrammaticati che stanno sulla superficie. Leggono un titolo o vedono un’immagine e BAM! si sentono sul pezzo e sono pronti a sputare il loro veleno.

Poi ci sono gli hater occasionali, gli hater professionisti, quelli prezzolati per odiare, i troll, i falsi profili, i profili veri con false opinioni, i bot (metà dei commenti negativi sull’ultimo Star Wars sono falsi, per capirci).
10.000 anni di evoluzione per creare algoritmi odianti. E noi che immaginavamo i viaggi spaziali.

Ci sono gli hater in fasce. I bambini, i ragazzini, gli adolescenti. Per definizione, le creature più lontane dalle mezze misure. Qualche giorno fa una sedicenne in Malesia ha pubblicato un poll sulle Instagram Stories scrivendo: “Really Important, Help Me Choose D/L“, dove D e L stavano per Death o Life. Il 69% dei suoi contatti ha votato D, e lei si è tolta la vita.
Chi ha votato per la sua morte è colpevole? È in qualche modo complice del suo suicidio? La legge ha ancora voragini nel campo dell’hating digitale e del bullismo in genere. Ma la nostra questione è un’altra: perché toccare quella D. Escludendo i burloni e quelli che evidentemente avevano sottovalutato le condizioni psichiche della loro amica (o conoscente, o sconosciuta), cosa spinge un ragazzino a incoraggiare un gesto estremo?

Penso a quel magnifico racconto breve di Richard Matheson, Button button, scritto nel 1970 ma sorprendentemente attuale e lucido (ne hanno anche tratto il film The Box, purtroppo bruttino). C’è questa tizia, Norma, che un giorno trova di fronte alla porta di casa il pacco del titolo. Dentro c’è un congegno semplice: un pulsante su una base di legno. Come le racconterà di lì a poco un “incaricato”, premere il tasto causa la morte immediata di uno sconosciuto, e un altrettanto immediato compenso di 50.000 dollari (siamo negli anni ’70, mica poco). Che fare? Un omicidio di una persona sconosciuta – e la gente muore di continuo, suvvia – a fronte di un lauto compenso. Non spoilero nulla sul finale: concentratevi sul pulsante rosso. Sulla sua meccanica, sulla semplicità. Un pulsante che 50 anni dopo diventa un commento, un giudizio sprezzante, un insulto sparato nell’oceano digitale verso uno sconosciuto. Non costa niente. È gratificante (almeno nel breve periodo) e fa male sì, ma non sappiamo quanto. È difficile da concepire, è la differenza tra sganciare una bomba da un drone e sparare a un civile. Non riusciamo a immaginarlo, perché stiamo ancora guardando un pulsante.

Ho scritto parecchio e mi pare di non aver scritto un granché. Se siete arrivati fino a qui, avete superato da un pezzo l’introduzione clickbait su GoT, siete sopravvissuti alle paludi dell’approfondimento psicologico, avete scalato le montagne della biologia e siete scivolati di nuovo nella tragica attualità. E di nuovo: è sabato, e meritate un finale diverso.

Ci sono decine di articoli che cercano di trovare una soluzione all’odio online. Centinaia di consigli, a volte molto semplici, spesso banali. Come rispondere a un hater? Cosa dire? Cosa evitare? Lo avete già capito: non c’è una soluzione. La buona notizia è che forse è la domanda a non essere corretta. È come se provassimo ad arginare una perdita in un muro: l’acqua si farà sempre strada, e arriverà fino a noi. E se avremo successo o ci riconosceranno un merito, l’acqua arriverà con molta più potenza. Non c’è una soluzione. Ce ne sono tante.

Oggi la mia preferita è quella di Dylan Marron, attore, scrittore e digital creator. Un tizio i cui format online hanno parecchio successo, e che a un certo punto ha dovuto fare i conti con gli odiatori. In un uno speech durante un Ted Talk, Marron ha esposto la sua strategia: parlare con gli hater. Ovviamente ne ha fatto immediatamente un format: Conversations with people who hate me, un podcast in cui lui stesso chiama al telefono chi lo ha insultato e ci fa due chiacchiere. Il processo gli serve per umanizzare chi c’è dall’altra parte, ma non è tutto. Parlare con qualcuno che non è d’accordo con noi non significa passare necessariamente sugli argomenti che ci dividono. Con tutta probabilità nessuno dei due cambierà idea. Ma non ha alcuna importanza. L’empatia non è, e non deve essere, approvazione. Non è scendere a compromessi con un’idea che non sposeremo mai. È cogliere l’umanità di qualcuno che la pensa in modo completamente da noi, e passare oltre.

È un metodo, non IL metodo. Molte persone non possono né vogliono mettersi in gioco fino a questo punto: chi è vittima di bullismo non desidera certo empatizzare con i proprio carnefici.
E non dev’essere lasciato solo a trovare una soluzione diversa.

Riusciranno nuove leggi e nuovi algoritmi ad arginare un fenomeno che si è sviluppato e ingigantito negli ultimi anni? Difficile prevederlo. L’odio è un virus che evolve, trova nuovi ceppi, nuovi appigli. È contagioso e anche respirarne gli effluvi passivi può risultare dannoso. E in ogni momento può essere usato contro di noi. Forse al netto di tutto, la differenza un giorno potranno farla solo le persone. Non sarebbe buffo?

È sabato mattina. È vero, il tempo fa schifo, ma fuori dalla bubble non si sta così male. Prendiamoci una pausa, diamo un’occhiata in giro.

Ci sono un sacco di cose da amare. C’è questo caffè.
E non so se ve l’ho detto, ma domani esce l’ultima puntata di Game of Thrones.