Brand social nel 2020: aspettative, utopie e realtà

Analisi

Utopia, disincanto o realtà: la parola “social” oggi, a quindici anni dalla nascita di Facebook ha attirato una varietà di significati molto diversi tra loro. Si tratta di un insieme di strumenti per creare un mondo sempre più connesso, che vede nuovi trend e movimenti nascere continuamente dal basso, e in cui le dinamiche di diffusione delle informazioni dipendono dai legami tra le persone? Oppure intendiamo una prospettiva diversa, fatta di versioni indipendenti del concetto di “internet”, di sistemi chiusi e di controllo delle dinamiche di comunicazione da parte di pochi soggetti? Le sfumature tra questi due punti di vista sono infinite, ed è proprio in questo gap che ci muoviamo oggi: brand, persone e istituzioni hanno l’opportunità di dare forma a questo concetto e al modo in cui si svilupperà in futuro.

Internet non è come pensavamo

Le sfide che internet deve affrontare oggi sono numerose: l’accesso e l’utilizzo non sono uniformi per tutti, è più semplice che mai venire a contatto con disinformazione e manipolazione dei fatti, ci sono numerose versioni del web e alcune di queste sono sponsorizzate dai governi in modo non trasparente e le relazioni tra le persone attraversano una crisi di fiducia. Le piattaforme social, in costante crescita e con un modello commerciale solido, sono spesso state individuate come il simbolo di questa situazione. Il culto dell’innovazione tecnologica ha da sempre favorito le aziende della Silicon Valley che hanno reso possibile questi cambiamenti, ma oggi non è più sufficiente a proteggere dalle varie forme di critica che si trovano ad affrontare.

Menlo Park, interno campus Facebook

Ad-supported o ad-free?

La semplice idea di connettere le persone non ha risolto tutti i problemi. È diventato sempre più evidente negli ultimi anni come molte delle sfide non possano essere risolte solo dalla tecnologia. Questo ha reso fondamentale una riflessione più profonda sul ruolo che brand e “social” hanno nella nostra vita.

Se nel 2010 i media digitali erano dominati da una mentalità “free for all”, in cui la parola d’ordine per l’utente era “gratis”, a un decennio di distanza, assistiamo alla nascita di numerosi media “premium”, in cui le persone scelgono di pagare per il contenuto e, in molti casi, queste soluzioni sono libere da advertising. Per questo motivo, i brand hanno individuato soluzioni aggiuntive rispetto all’approccio tradizionale alla pubblicità, ripensando al proprio ruolo. La comunicazione e il marketing stanno cambiando la propria forma, evolvendo il ruolo che assumono nella vita delle persone. Scott Galloway, professore di Marketing alla NYU è famoso per aver affermato che “advertising has become a tax that the poor and the technologically illiterate pay”. Sono sempre più evidenti i casi in cui la pubblicità, per come la intendevano le persone 10 o 15 anni fa, sta diventando irrilevante. Si stanno sviluppando nuovi modi in cui i brand possono essere rilevanti per le persone e stabilire una connessione con loro.

I brand sono parte della società

Sempre più spesso, le marche si trovano a giocare un ruolo nella società, con una responsabilità simile a quella che è richiesta ai cittadini. Sono parte della nostra società, per molti aspetti, con la possibilità di avere un impatto (contenuto o significativo) sulle nostre vite e sulla cultura. Sono molti i brand che scelgono di prendere parte alla conversazione pubblica da un punto di vista sociale. In alcuni casi, anche in senso politico. Non si tratta “solo” di comunicazione: sempre più spesso le aziende possono influenzare il dibattito pubblico anche più dei governi.

Non parliamo solo delle rare case study in stile “Dream Crazy” di Nike con Colin Kaepernick. Negli stati uniti, il Business Roundtable ha recentemente rilasciato una dichiarazione rispetto a un nuovo modo di intendere il “brand purpose”: “While each of our individual companies serves its own corporate purpose, we share a fundamental commitment to all of our stakeholders, […] We commit to deliver value to all of them, for the future success of our companies, our communities and our country. Business Roundtable include i top executive di aziende come Amazon, Apple, Walmart, Pepsi e General Motors. A partire da questo approccio, è più facile intuire perché l’advertising, per come veniva inteso fino al 2010, non possa più essere una risposta.

Il CEO di Walmart, Doug McMillon, ha dichiarato a settembre che l’azienda avrebbe smesso di vendere munizioni utilizzate per fucili e armi di tipo militare. In casi come questo, la comunicazione e le policy del brand sono diventate parte del comportamento sociale del brand.

Facebook ha preso parte parte alla conversazione pubblica riguardo alla responsabilità, spesso suo malgrado. L’ultima, controversa, occasione è stata la comunicazione da parte della piattaforma di quali siano le policy per i messaggi politici. La scelta dell’azienda di Menlo Park è stata di non effettuare normalmente fact checking sulle comunicazioni che provengono dai personaggi politici. Questo ha acceso un dibattito importante sul ruolo di Facebook nella nostra società. Twitter e Snapchat hanno deciso di rispondere contrapponendo punti di vista e comportamenti differenti sullo stesso tema.

Fonte: BusinessInsider.com

Ruolo e responsabilità

La conversazione su temi sociali non è più qualcosa esclusivamente nelle mani di pochi brand come TOMS o Patagonia, che per anni hanno lavorato per avvicinare il “social purpose” al proprio business. Oggi le persone si aspettano da quasi tutti i brand che agiscano in modo coerente con le proprie parole e i propri valori. Quando ciò non accade, le marche subiscono reazioni importanti. Un caso interessante è il lancio di Ms. Monopoly, di Hasbro. Il nuovo episodio del famosissimo gioco da tavolo è stato presentato come “the first-ever game where women make more than men”. Sfortunatamente per il brand, questa operazione si è rivelata ironicamente poco concreta, quando si è diffusa la notizia per cui Lizzie Magie, la donna che ha effettivamente inventato “The Landlord’s Game”, precursore del Monopoli, non ha mai ricevuto un riconoscimento adeguato per il suo contributo.

Fonte: The New York Times

Purpose ≠ white washing

Un approccio che potremmo definire “whitewashing” non è accettabile per i brand oggi. Identificare una causa e indirizzare le proprie operazioni di marketing in quella direzione semplicemente per acquisire visibilità è diventato dannoso per quelle marche che sviluppare una relazione positiva con le proprie community. Solo quando il brand purpose è reale e radicato nel DNA della marca, diventa possibile condividerlo. Se non ci sono questi presupposti, nessun brand oggi può prendere parte ai cambiamenti della nostra società o diventare parte del progresso culturale.

Dire che i brand oggi hanno questo approccio solo per convenienza comunicativa è fuorviante. Esiste un valido background di business a supporto di questa scelta, ma l’aspetto più interessante di questa situazione è che per le aziende esiste una possibilità di generare profitto mentre si sviluppa un impatto positivo sulla società. In altre parole “woke as a business strategy”, oggi è una realtà per molti. In netta opposizione rispetto a quanto avveniva negli anni novanta, quando per i brand aveva senso rimanere al di fuori del dibattito sociale perché, come sosteneva Michael Jordan “Republicans buy shoes, too”.

Ripristinare la fiducia nella industry

Alan Jope, CEO di Unilever, ha espresso chiaramente il suo punto di vista rispetto al “wokewashing”: questo tipo di advertising può distruggere la (debole) fiducia di cui gode il settore. Ha anche affermato che “Purpose is one of the most exciting opportunities I’ve seen for this industry in my 35 years of marketing”, aggiungendo che “Done properly, done responsibly, it will help us restore trust in our industry, unlock greater creativity in our work, and grow the brands we love”. 

Kendall Jenner per Pepsi. Fonte: The Drum


Qual è l’antidoto al “wokewashing”? Un approccio consapevole al brand purpose e alla comprensione del suolo dei brand nella società: mettere indiscussione i brief da parte di brand che non incarnano i propri valori e, invece, “unleash purpose with creative ideas that move people, change perceptions, and inspire action”.

In questo scenario, i brand hanno una forte responsabilità: non è possibile approcciare la comunicazione solo come un modo per fare sì che le persone parlino di un prodotto, che conoscano un brand e che si sviluppi attenzione intorno a un servizio. È importante capire che ogni azione ha un impatto potenziale sulla società.

Profitto e impatto positivo

Gli investimenti in campagne di marketing e comunicazione sono legati indissolubilmente al fine ultimo dei brand: generare profitto e valore per gli stakeholder. È però importante riconoscere che prendere parte alla conversazione pubblica con l’obiettivo di avere un impatto sulla società può essere una forza progressiva e al tempo stesso un approccio al branding molto rilevante.

Per citare Demna Gvasalia, Direttore Creativo di Balenciaga, “Change is happening, even though we don’t realise it, because everything is done online. We don’t have to go out on the streets and wear flowers anymore. […] Sitting at home being angry about things is very 2017 in a way, is too easy. It doesn’t work. Whenever we can do more than just give an opinion on social media, we must. I believe in action. Whether it’s big or small, everything counts.”

Artwork by DotPigeon