"Compravendita" di fan e follower: un po' di chiarezza.

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gabriele.cucinella

Stamattina abbiamo letto su Corriere.it un’intervista a Marco Camisani Calzolari in cui vengono denunciate delle metodologie poco ortodosse di raccolta fan e follower su Facebook, Twitter a altri social network. Ovviamente non potevamo esimerci dal commentare una presa di posizione che, pur facendo riferimento a “servizi” reali e ben conosciuti da diverso tempo, ci ha lasciati un po’ perplessi.

Andiamo dritti al punto: affermare che “l’80% dei fan e dei follower delle aziende italiane è finto” e che “molte web agency agiscono in questo modo e tutti comprano i fan” ci sembra un atteggiamento piuttosto generalista, privo di sostanza (da dove arrivano questi dati?) e, soprattutto, svilente nei confronti di un mercato in cui diverse agenzie come la nostra lavorano secondo principi etici ben precisi (nel nostro caso elencati nel codice etico Womma).

Servizi come Letusfollow.com o Growfollowers.com esistono da diversi anni (per cui, francamente, ci sorprende un po’ il clamore di queste dichiarazioni), ma soprattutto non hanno nulla a che vedere con il ruolo delle agenzie. E non è solo una questione di etica: raccogliere fan o follower “fake” o tramite meccanismi automatici di affiliazione semplicemente non funziona. Il numero dei fan non è e non può essere l’unica metrica, ed è evidente che una community estremamente numerosa composta da profili finti o da persone completamente disinteressate non porta nessun beneificio nè ai brand, nè alle persone stesse. Il livello di engagement rappresenta un dato importante almeno quanto il numero dei fan: il social web ha rappresentato (e continua a rappresentare) una rivoluzione nel mondo della comunicazione, mettendo in evidenza il valore della conversazione, dell’interazione e dello scambio paritario tra marche e consumatori. Che tipo di interazione potremo avere con 5 milioni di fan “fantasma”?

Noi di We Are Social e, ne siamo certi, molte altre agenzie, lavoriamo sulla conversazione per far sì che marche e consumatori abbiano un dialogo reciproco interessante per entrambi, facendo leva su contenuti e operazioni capaci di portare valore all’interno di questo scambio. E vi assicuriamo che non è facile come spendere 30 dollari su un portale cinese.

Quindi capiamo la preoccupazione di Marco, ma onestamente crediamo che generalizzare un fenomeno che non riguarda affatto realtà come noi e i nostri clienti, citando dati sensazionalistici senza alcuna fonte sia quantomeno fuorviante. No?