Superbrand e superfan: come crescono le migliori community? [Studio]
Pochi giorni fa, Google ha acquisito la società di marketing software Wildfire. Viviamo in una “connected era”, non più in una “tradigital era”: non esistono più separazioni nette tra i canali di comunicazione. Ecco quindi perché Wildfire, pur essendo di proprietà del colosso di Mountain View che ha creato il proprio social network Google Plus, ha rilasciato uno studio molto interessante sulle strategie più efficaci per costruire una community, basandosi sull’osservazione di… Facebook.
Lo studio ha considerato 10.000 campagne Facebook (che includono applicazioni Facebook informative, di intrattenimento e anche ludiche) e ha preso in considerazione tre tipi di utente:
- Joiner: colui che partecipa alla campagna come fruitore;
- Sharer: colui che partecipa alla campagna come fruitore e condivide con i propri amici;
- Advocate: colui che partecipa alla campagna come fruitore, condivide con i propri amici e ha abbastanza rilevanza nella propria community per stimolare nuovi utenti a interagire;
Ecco come sono distribuiti queste tipologie di utenti in generale e per le app con performance migliori (il 10% “top performing”).
Dallo studio emerge che le campagne che hanno performance migliori sono quelle basate su applicazioni che stimolano gli advocate e favoriscono la dinamica di sharing. In altre parole: l’esperienza utente è fondamentale, ma senza una buona base di condivisione e di coinvolgimento della community è molto più difficile che un qualsiasi applicativo abbia successo sui canali social.
Ecco alcuni spunti molto utili per chi vuole costruire una community attiva, anche grazie a campagne Facebook, ispirati dai risultati dello studio:
- La strategia è fondamentale anche in questo caso: è importantissimo mantenere attivo il livello di coinvolgimento con numerose azioni mirate a nicchie ma coordinate tra loro. La logia “one shot” sui canali social funziona molto meno di un rapporto continuativo;
- Il contesto è importantissimo: gli elementi le “stories”, le interazioni e i contenuti devono essere il più possibile vicino alla realtà di chi interagisce con il brand. Status update generici o con un approccio che ricorda quello di un banner non funzionano su Facebook. In particolare quando servono a dare visibilità a una applicazione;
- Le immagini si condividono molto facilmente: anche se non possono monopolizzare un news feed di marca e si devono integrare bene con altre tipologie di post, le immagini sono il tipo di post più efficace su Facebook, come dimostra anche l’analisi di Edgerank Checker relativa a giugno 2012;
- Non limitarsi in base alle piattaforme è d’obbligo: siamo nella “connected era”, l’esperienza degli utenti con una marca non può chiudersi all’interno di un solo canale. Dove possibile, è molto utile estendere l’esperienza a altri canali utilizzati dalle persone. Studiare il comportamento del “target” serve anche a questo: capire “dove” e “come” interagisce. Ecco quindi che un’applicazione può vivere (molto bene) su Facebook e contemporaneamente essere un’interazione efficace su Twitter e Google+;
Progettare esperienze per i social media diventa una pratica sempre più “sociale”, in cui le condivisioni e le dinamiche di advocacy indicano il successo o il fallimento di un’iniziativa. Studiare in modo approfondito le persone e elaborare una strategia sulla base di obiettivi di marketing, comunicazione e business è la chiave per il successo per i brand che partecipano alla conversazione.