Influencer Marketing, tra fiducia e trasparenza

Analisi
Luca Della Dora
Le decisioni d’acquisto sono – da sempre – influenzate dalle opinioni altrui: dal parere di un nostro amico che ha acquistato l’auto nuova, alla zia che è appena stata in vacanza e ci ha raccontato la sua esperienza in quell’hotel, fino al nostro attore preferito che ci suggerisce di provare quella bibita così dissetante attraverso uno spot in TV.

È stato così per decenni (e continua a esserlo), ma oggi si aggiunge un nuovo tassello al puzzle che contribuisce a formare le opinioni dei consumatori: la possibilità – per tutti – di esprimere il proprio parere attraverso le piattaforme social.

Per tutti, appunto. Perché, potenzialmente, chiunque può creare contenuti in grado di raggiungere altre persone e avere un impatto sulla loro opinione (o anche “soltanto” far venire loro a conoscenza di un determinato prodotto).

Le persone, oggi, si fidano più di quello che trovano su Pinterest che dei consigli del loro medico quando si tratta di decidere cosa mangiare e sono più i ragazzi che imparano a cucinare guardando tutorial su Youtube anziché grazie ai consigli delle loro madri.

Il 92% dei consumatori dichiara di fidarsi delle raccomandazioni che trova online, anche se condivise da persone che non conosce personalmente. È quindi evidente che, quando si parla di influencer marketing (un termine usato e abusato, che usiamo solo per semplificazione), la fiducia sia l’elemento principale di cui tener conto.

Come far sì che questa rimanga intatta? Principalmente attraverso una comunicazione onesta e trasparente, che non cerchi di ingannare le persone con messaggi artificiali e costruiti.

Questo significa che un content creator dovrebbe “promuovere” soltanto prodotti a cui è estremamente legato? No, ma è fondamentale che dichiari il tipo di rapporto che ha con il brand che glieli ha forniti: la trasparenza passa attraverso una sorta di patto tra chi sta veicolando quel determinato messaggio e chi quel messaggio lo fruisce da “spettatore”.

Sportivi, celebrità, musicisti, youtuber, chef e potremmo continuare citando altre decine di “categorie” di persone: sono tutti – potenzialmente – media che i brand possono sfruttare per amplificare la portata dei loro messaggi, sia grazie all’autorevolezza che queste persone hanno su nicchie di persone (più o meno estese), sia grazie alla loro capacità di creare contenuti capaci di conquistare l’attenzione delle persone.

L’efficacia di questi contenuti è determinata dal modo in cui sono prodotti, dalla loro naturalezza e dalla coerenza con il resto dei contenuti prodotti quando non ci sono brand coinvolti: insomma, è fondamentale che il coinvolgimento di un brand non snaturi il tono di voce e la personalità di chi crea quel messaggio, rendendolo artificiale e forzato (e soprattutto diverso da quello che le persone si aspettano).

È un tema dibattuto da tempo e ci sono enti e associazioni (come WOMMA – Word of Mouth Marketing Association – con cui collaboriamo fin dalla nostra nascita) che vogliono garantire il rispetto di questi principi, ma è solo recentemente che le maggiori piattaforme social hanno iniziato a fornire strumenti che garantissero l’esplicitazione del legame tra brand e content creator (o celebrità).



Facebook e Youtube permettono di dichiarare questo coinvolgimento attraverso feature ad hoc, e ora anche Instagram si è mosso in questa direzione: tutti i contenuti branded – sia immagini e video, sia stories – conteranno infatti la dicitura “Paid partnership with”, per permettere ai creator di comunicare in modo trasparente che stanno producendo quel contenuto insieme a un brand.



Ci sono casi in cui il coinvolgimento del brand è evidente e altri in cui è meno esplicito: l’introduzione di soluzioni di questo tipo eliminerà la differenza tra questo genere di contenuti.

Il caso di Selena Gomez è solo uno dei più noti:




when your lyrics are on the bottle ? #ad


A post shared by Selena Gomez (@selenagomez) on Jun 25, 2016 at 2:03pm PDT




Si potrebbero citare decine di altri casi in cui il placement di prodotto è meno evidente, ma che – concettualmente – ha lo stesso effetto: per questo crediamo che dichiarare che si tratta di contenuti promoted sia non solo necessario (a prescindere dal tipo di contenuto), ma anche vantaggioso per tutte le parti in causa, proprio per preservare l’autenticità e per non compromettere quella fiducia menzionata all’inizio di questo post, perché nel breve periodo questa potrebbe anche rimanere intatta, ma a lungo andare sarebbe sicuramente inficiata da messaggi palesemente artificiali e forzati.