THANK GOD WE ARE SOCIAL #361
Henry Miller, Joan Crawford, Roman Polanski..
(Se iniziamo con i musicisti, poi) Miles Davis, Sid Vicious, Chuck Berry, James Brown, Wagner, Phil Spector, Cee Lo Green…
Tutte celebrità.
Gente che ha raggiunto picchi di elevatissima grandezza artistica, ma che nella loro vita ha fatto (o detto) qualcosa di terribile.
Qualcosa che ha condizionato la percezione che abbiamo di loro.
Non riusciamo quasi più a guardarli, ascoltarli o leggerli senza pensare a cosa abbiano fatto, e così siamo costretti ad allontanarli. D’un tratto “Io ed Annie” diventa un film assai discutibile, “La Pioggia nel Pineto” un’opera altezzosa, ma soprattutto Louis C.K. non fa poi così ridere.
…oppure no?
Forse li cerchiamo comunque, riuscendo a discernere l’artista dalla sua arte, consapevoli che in realtà l’opera non viene pregiudicata dall’etica del suo autore?
La realtà è che non sappiamo ancora bene come comportarci.
Nell’opinione pubblica, morale e grandezza lavorativa sembrano vivere un binomio imprescindibile.
Abbiamo disperatamente bisogno di credere che l’autore di un brano sofisticato come “Life on Mars” non possa essere stato coinvolto in scandali con minorenni, allo stesso modo di chi ha praticamente inventato il pop o il rock n’ roll.
La società esige da chi ha fatto grandi cose (persone o brand indistintamente) di tenere di riflesso condotte esemplari, pretende che oltre alla loro funzione siano anche dei modelli di comportamento. Esattamente come quando il valore della simpatia” guadagna peso nella valutazione lavorativa.
Cosa ci succede quindi, quando ci sottoponiamo consapevolmente all’opera di uno di questi mostri geniali?
Subiamo amnesie temporanee quando vogliamo ascoltare ad esempio l’anello del Nibelungo (tralasciando che è più facile per alcuni rispetto ad altri: Wagner non è quasi mai stato eseguito in Israele)? Riusciamo a chiudere un occhio (o forse due) quando guardiamo Isaac flirtare con Tracy in “Manhattan”?
Ridiamo ancora con i Robinson?
È il tipo di domanda che mi sono fatto di recente guardando i Simpson: sembra che Apu sia finito nell’occhio del ciclone dopo che il comico indiano Hari Kondabolu ha sollevato critiche circa il suo personaggio, gridando allo stereotipo, alla caricatura, allo stigma che sembrerebbe perpetrare.
Ho provato a rispondermi.
Da un lato è difficile paragonare ambiti della cultura e soprattutto tempi che sono molto distanti tra loro: é da troppo poco tempo che grazie al femminismo è possibile arrivare a condanne esemplari di soggetti che fino a 50 anni fa sarebbero usciti intonsi dagli stessi scandali.
Allo stesso modo sarebbe assurdo criticare oggi Spinoza per le sue idee sulla figura della donna allo stesso modo di quando reagiamo all’ultima piazzata di Trump, per quanto a prima vista possano sembrare simili.
Forse é quindi una questione pragmatica, dove l’unica discriminante è la possibilità che l’artista possa trarre sostegno dal nostro consumo dell’opera.
Magari sarebbe accettabile fruire solo di chi è già passato a miglior vita, in quel caso avremmo l’animo in pace e non contribuiremmo alla sofferenza di nessuno. Andrebbe bene se ci vedessimo l’ultimo film di Spacey in streaming gratuito? …magari a casa di un amico?
In effetti esasperando questo ragionamento dovremmo abbandonare le nostre raccolte Disney, / Pixar, i nostri capi firmati, gran parte della letteratura occidentale (ma solo perchè non so assolutamente nulla di quella orientale) e diciamo pure un buon 65, 70% della musica moderna?
Citando Palazzo, “Burn your Pasolini. Burn your Henry Miller. Burn your Plato. Burn your Michelangelo. Burn your Theognis and Sokrates.”
Penso poi a quando settimana scorsa XXXTentation e R. Kelly sono stati rimossi dalle playlist Spotify in quanto la loro condotta (non propriamente idilliaca) ha fatto storcere il naso al colosso dello streaming.
Simon Reynolds (per chi non lo conoscesse forse il più importante critico musicale vivente) aveva in passato commentato l’espansione della musica trap con entusiasmo, pur evidenziando evidenti problematiche: “…dicono cose terribili, nei video ci sono soldi, macchine, stereotipi di ogni tipo. Eppure c’è vita dentro. C’è futuro” – aggiungendo poi – “…una volta ascoltando reggae alla radio mi sono accorto che un brano stava dicendo ‘we bun del chi chi man’ (diamo fuoco all’omosessuale) e mi ricordo di aver pensato ‘Non posso proprio comprarla, non posso dargli dei soldi’.“
Stessa sorte é capitata a Roman Polanski, espulso dall’Academy of Motion Picture Arts & Sciences in seguito all’adozione di un codice etico che vieta ai membri “di abusare del loro potere o di tenere condotte immorali”..
(n.b. questo codice non era in vigore nel 2003 quando la stessa associazione gli conferì un Oscar).
I brand esigono mantenere un’immagine illibata: a voler essere cinici, prendere posizioni scomode il più delle volte non paga. Sembra che la società – nel momento in cui riconosce un comportamento antisociale – non tanto per una riflessione valoriale quanto per una reazione delle persone che hanno potere d’acquisto (che possono influenzare il mercato) individua nel “mostro” (o nell’individuo anti-sociale) un estraneo, perché non vuole più riconoscersi in quell’immagine.
Se una celebrità (nella quale la società si riconosceva) commette un comportamento antisociale, subito lo emargina, auto-epurandosi, come a soddisfare il bisogno di avere la coscienza pulita. Come a dire “io non sono così. Sono meglio.”
Sono eccezioni i casi in cui posizione viene sì presa, ma non su temi valoriali: è comunque da accogliere con plauso l’espandersi di canali come quello di Wendy’s a cui è stata conferita una personalità forte, che alle volte genera scalpore: per questo potremmo presto assistere a prese di posizione su temi molto importanti, e sarà interessante vedere se la società reagirà come ha sempre fatto o ci sarà un cambiamento.
Forse è così che i vari Bansky, Blu, Burial hanno compiuto la loro scelta di anonimato: a voler essere obiettivi la storia ci insegna esattamente questo.
Nel mondo dell’arte, della cultura, della filosofia, dove l’eccesso e la sperimentazione hanno sempre governato la vita degli artisti è facile trovare storie personali alquanto discutibili. Forse esiste addirittura un conflitto pratico fra l’essere grandi artisti ed esempi di virtù. Banalizzando, sembrerebbe che la morale reprima lo stimolo e il desiderio, e quindi l’osservarla comporti uno “spegnimento” vitale difficilmente compatibile con l’esigenza di sincerità e assenza di filtri necessaria alla creazione artistica.
Se dare una risposta é difficile, forse impossibile, e la letteratura critica si interroga sull’argomento e continuerà a farlo per i prossimi decenni, gli sceneggiatori dei Simpson hanno colto l’occasione per spiegarci il loro punto di vista, offrendoci la scelta di un mondo senza battute scomode, politically-correct, che non discrimini e non pregiudichi nessuno, all’interno del quale vengono sostituite con figure inoffensive tutte le minacce alla sensibilità altrui.
Troppo noioso, a parer loro.
The Simpsons goes after politically correct critics, singling out “The Problem With Apu” https://t.co/4QRHsUJnd9 pic.twitter.com/HZRYPWoqaI
— Jon Levine (@LevineJonathan) 9 aprile 2018