THANK GOD WE ARE SOCIAL #391

Thank God We Are Social
paola.cantella

“Sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano.
Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe.”


Non importa se a dirlo sia stata io, Madre Teresa di Calcutta oppure Patti Smith: la sostanza non cambia.
Goccia dopo goccia, crescono le onde.

All’inizio, con l’arrivo della prima onda, chiedevamo di essere semplicemente ascoltate. Chiedevamo di dire la nostra, di diventare parte attiva, di decidere. Di votare, banalmente, per ricoprire finalmente un ruolo attivo e vivo all’interno dell’ingranaggio politico. Ci chiamavano suffragette e difatti domandavamo nostro il suffragio: il diritto a votare, esteso alle donne italiane solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945.



Alla seconda onda, a partire dagli anni Sessanta, vogliamo l’uguaglianza di genere. Sì, ma in termini concreti? Emancipazione, baby. Diritto legislativo all’aborto, alla contraccezione, al piacere e alla libertà sessuale. Diritto a ricevere più rispetto dentro e fuori le mura domestiche, diritto al divorzio e diritto alla parità lavorativa: è il periodo delle grandi lotte in piazza, del Partito Radicale, del “3mate, 3mate, le streghe son tornate”, del “col dito, col dito, orgasmo garantito”, del “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Quanti reggiseni bruciati, amiche mie.



Alla terza onda, mentre la street art e il grunge degli anni Novanta dilagavano ovunque, abbracciamo la diversità, impariamo la lezione dell’intersezionalità e portiamo la lotta fuori dal nostro quartiere: queer, trans, nero, colorazione razziale, postcoloniale, decolonial, pro-sex, ambientalisti, post-umanista, anti-capitalista e anti-imperialista, chi più ne ha, più ne metta. Vogliamo una teoria critica! Ed ecco che arrivano gli “studi delle donne” e gli “studi di genere”. Tà-dan.





E la quarta onda? Sta passando ora, proprio sopra le nostre teste. Sta succedendo ora. Un movimento fresco, mondiale, espansivo e molto combattivo che si porta dietro qualcosa di nuovo: una spinta femminista che stavolta non viene dall’Europa, né dagli Stati Uniti, ma dal cuore dell’America Meridionale. Precisamente dall’Argentina, dove è stato lanciato lo slogan “Ni una menos”, per arrivare ovunque. Cos’è cambiato? Nel frattempo, potreste averlo dimenticato, abbiamo dato il benvenuto a internet, influencer e social media.

Volete un esempio? Nel 2018, tra gli hashtag impiegati su Instagram a sostegno di una causa, il più utilizzato è proprio stato #metoo (1,5 milioni), seguito da #timesup (597mila) e solo in terza posizione da #marchforourlives (562mila).



Del resto, già sul finire del 2017, il celebre dizionario americano Merriam-Webster affermava che le ricerche sul termine “femminismo” erano aumentate del 70%, raggiungendo l’apice con lo scoppiare dello scandalo Weinstein, di cui ricorderete le accuse di molestie di decine di attrici dello star system hollywoodiano nei confronti del produttore cinematografico. Un uomo ormai noto principalmente per essere diventato simbolo di colui che abusa in primis del suo genere sessuale e poi della propria posizione di potere per ottenere favori sessuali. Ma facciamo un passo indietro.

Ma facciamo un passo indietro.

L’attrice Alyssa Milano sta chiacchierando al telefono con un’amica, è il 15 Ottobre 2017. Insieme commentano alcuni passaggi del racconto di Ashley Judd, pubblicato qualche giorno prima dal New York Times: pare che nel 1997 il produttore Harvey Weinstein, il boss di Hollywood, l’avesse molestata, assalita, buttata sul letto. Vent’anni dopo, esausta dai tentativi di farsi ascoltare, la Judd decide di raccontare la sua storia al quotidiano di Manhattan. Alyssa vive quasi un flashback, leggendo. Confida all’amica di aver vissuto lo stesso trauma, di volerlo raccontare con lo stesso coraggio, di volerlo urlare al mondo su Twitter. Ed è qui che l’amica le darà un consiglio davvero saggio: usare l’hashtag #MeToo, inventato dall’attivista Tarana Burke dieci anni prima. Alyssa accetta in toto il suggerimento e prima di addormentarsi affida queste testuali parole al proprio feed Twitter: “Se anche voi siete state sessualmente molestate o assaltate, scrivete “me too” in risposta a questo tweet”.



Inutile aggiungere che già solo a colazione Alyssa trova più di 30 mila risposte, oltre 1,7 milioni di condivisioni e l’adesione immediata di star come Lady Gaga, ma anche e soprattutto di migliaia di donne sconosciute, vittime non solo di violenza fisica e sessuale ma anche psicologica. Un vero e proprio esercito, nato spontaneamente, capace di una potenza mediatica travolgente, trasversale e universale.

Questa è la nascita di un movimento capace di arrivare in meno di due mesi a conquistare la copertina del magazine Time come Person of the Year 2017 (che in un primo momento sembrava potesse essere dedicata al presidente statunitense Trump, già precedentemente e fortemente contestato dal movimento femminista) con una personalizzazione dei cosiddetti Silence Breakers, coloro che hanno rotto il silenzio, grazie a cinque portavoce d’eccezione: in primis ovviamente Ashley Judd, accompagnata dalla cantante Taylor Swift, da Susan Fowler, ingegnere di Uber, da Isabel Pascual, contadina nelle piantagioni di fragole e da Adama Iwu, entrepreneur californiana. Cinque diversi volti, cinque esistenze separate, cinque donne completamente diverse tra loro. Eppure, così uguali.



Un’affermazione di volontà apprezzata e sottolineata dalla scelta delle attrici e degli attori, nel corso della cerimonia della settantacinquesima edizione dei Golden Globes a Gennaio 2018, di indossare capi di abbigliamento solo ed esclusivamente di colore nero in segno di supporto alle vittime dello scandalo Weinstein.



Un sostegno e una partecipazione che iniziano rapidamente a oltrepassare i confini statunitensi: l’ondata di ritrovato spirito femminista giunge rapidamente anche in Italia, assumendo tratti di grande portata mediatica e popolare. Ditemi cosa c’è di più popolare in Italia, se non il Festival di Sanremo? Ecco allora che durante la terza serata, assolutamente in diretta, si decide di omaggiare le donne coinvolgendo associazioni di riferimento e cavalcando l’entusiasmo generale sul suddetto tema sociale, tanto sensibile quanto ormai dibattuto ovunque.

Michelle Hunziker, presentatrice dell’edizione, viene fintamente interrotta in diretta da un gruppo di signore del pubblico mentre intona “I maschi” di Gianna Nannini: quello che segue è un siparietto di battute sulla scelta del brano, per poi passare ad una programmata invasione di palco e a un’esibizione collettiva sui più celebri versi di canzoni italiane dedicate invece alle donne. Cos’è andato storto, chiederete voi? Il fatto di scegliere, tra i testi delle varie canzoni, versi che celebrano praticamente solo la maternità e l’essere madre, come massima espressione dell’essere donna. Credo che nel 2018 non sia necessario aggiungere molto altro: not a great choice, Sanremo.



Insomma, non la polemica e neanche il semplice prendere posizione ripagano sempre, neanche quando ci sono di mezzo tutte le migliori intenzioni e forse anche tutte le ragioni. Lo sa bene anche quella dea terrena di Emily Ratajkowski, arrestata insieme all’attrice e comica Amy Schumer e altre 302 attiviste durante la protesta totalmente pacifica contro la nomina in corso del candidato americano alla Corte Suprema, Brett Kavanaugh. Per caso il nome vi suona familiare? Per rinfrescarvi la memoria, parliamo del giudice scelto da Trump e colpevole delle accuse di stupro di tale Christine Blasey Ford, seguite poi dalle altre accuse di altre due donne, che è stato comunque nominato e ritenuto valido per ricoprire una tale carica. Una nomina sudata, sofferta, ma tristemente confermata dopo due settimane di dibattito politico sulla questione.



A niente purtroppo è servita la crociata mediata di Em che, già conosciuta per le sue posizioni nettamente femministe, aveva intrapreso sul proprio account Instagram con una vera e propria dichiarazione ufficiale come caption.

E se c’è modo e modo di far valere le proprie idee, prendiamoci un momento per ricordare anche che non esiste solo l’insopportabile pratica del mansplaining (qui un uomo che può spiegarvi sicuramente meglio di me di cosa si tratta), ma che nel corso di questo ultimo eccitante anno avrete sentito sicuramente parlare di manspreading. Grazie anche e soprattutto ad Anna Dovgalyuk, un’attivista ventenne di origine russa, i cui video hanno spopolato per un certo periodo: veri e propri attacchi chimici agli uomini seduti a gambe larghe sui mezzi pubblici, con l’uso di acqua e candeggina buttata sui loro genitali. L’attivista definisce questo modo di sedersi come una “aggressione di genere” e la sua arma è una vera e propria bomba: “Questa soluzione è trenta volte più concentrata della miscela usata dalle massaie quando fanno il bucato. Mangia i colori del tessuto in pochi minuti, lasciando macchie indelebili”. Pare nessuna denuncia per ora, ma lascio trarre a voi le conclusioni più personali sulla questione.



Meno difficile schierarsi ed esultare con gioia per la storica apertura dell’Arabia Saudita al diritto alla guida per la popolazione femminile, con la revoca del divieto festeggiata alla mezzanotte dello scorso 24 Giugno: un momento storico per le donne arabe che da sempre hanno dovuto fare affidamento sui mariti, fratelli o chiunque altro possedesse il diritto a guidare, per spostarsi day by day. “Sono senza parole. Sono così eccitata da non credere che stia succedendo davvero”, ha dichiarato Hessah al-Ajaji, finalmente alla guida della Lexus di famiglia lungo l’affollatissima via di Tahlia Street a Riyadh.



Altrettanto impossibile non esultare apertamente a favore dell’ultima scintilla di rivolta, nata proprio nell’ultimo periodo in Sud Corea, dove i canoni femminili e gli standard di bellezza sono rinomati per essere assolutamente irreali. Ad accorgersene, pare che ci siano arrivate anche le stesse ragazze sud-coreane, stremate dalle interminabili routine di bellezza e dallo spietato body shaming che subiscono quotidianamente. Qualche esempio? Capelli obbligatoriamente lunghi, niente occhiali da vista, niente imperfezioni delle pelle, chirurgia estetica quanto prima possibile. Pena la violenza psicologica, spesso fisica, aggressioni sui posti di lavoro e pressioni sociali di vario genere. Su Instagram e YouTube, in pochissimi giorni, sta infatti crescendo a dismisura il numero delle donne sudcoreane che simbolicamente e non sta facendo a pezzi i propri prodotti di bellezza, distruggendo ombretti e rossetti, ma anche semplicemente tagliandosi i capelli e rivendicando con vari slogan il proprio diritto ad essere chi davvero sono.




Tutto questo, sotto un solo nome: #EscapeTheCorset. E pensare che anche in questo caso è bastato il coraggio di un singolo individuo, nella figura di Lim Hyeon-ju, conduttrice in un programma tv coreano che ha indignato mezzo paese andando in onda con gli occhiali da vista, evidente segno di difetto fisico, per smuovere le coscienze di milioni di ragazze e giovani donne.



E in Italia? In Italia non è tutto così semplice. Tralasciando il ben più spinoso discorso sul femminicidio (solo per darvi qualche dato, 106 le vittime di femminicidio in Italia nei primi dieci mesi del 2018 secondo l’aggiornamento statistico sul fenomeno curato da Eures), nonostante la presenza di associazioni come “Se non ora quando” e “Non una di meno”, molti restano i punti in sospeso su questioni che toccano fortemente da vicino la popolazione femminile italiana. Ad esempio, Verona è recentemente diventata “città a favore della vita”: nel 40esimo anniversario della legge 194, tutelante l’interruzione volontaria di gravidanza, il consiglio approva la mozione 434, dando un congruo finanziamento ad associazioni cattoliche anti-aborto, di fatto contro la libera scelta di ognuna di noi. La stessa mozione è stata respinta a Roma e ritirata a Milano grazie anche alle “ancelle”: donne del movimento Non una di meno che per protesta si sono presentate in aula vestite proprio come le protagoniste di “The handmaid’s tale”, la distopica opera femminista di Margaret Atwood da cui poi è stata tratta la celebre serie.



Continua anche la battaglia della Casa Internazionale delle Donne, associazione storica con base a Roma, che da anni lottacontro lo sfratto comunale e che lo scorso 29 Novembre ha depositato al Tar un ennesimo ricorso. L’avvocato Giuliana Aliberti ha spiegato di aver “depositato una perizia dalla quale si deduce che la Casa è un arricchimento per la vita della società e, visto che questo istituto deve essere destinato a fini sociali perché fa parte del patrimonio indisponibile del Comune di Roma, non si capisce perché non può essere destinato gratuitamente, la legge lo permetterebbe, alla Casa Internazionale delle donne”. Intanto, è partita online la campagna di comunicazione ideata per rilanciare il sostegno all’associazione, comunque scesa in piazza per la grande manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne lo scorso 25 Novembre, durante un evento che ha riunito migliaia e migliaia di partecipanti in tutte le piazze di Italia, donne e uomini. Proprio come lo scorso 8 Marzo, durante lo sciopero femminile indetto in più di 70 paesi.



Ma sciopero perché? Cosa chiede la quarta onda? Cos’è il femminismo 2.0?

Quello che viene da rispondere è che forse sono cambiati i temi: dai diritti LGBT, all’accettazione di sé stessi e del proprio corpo, all’estirpazione di forme di discriminazione basate su stereotipi di genere, alla fine dello slut shaming verso le vittime di stupro, fino all’eliminazione del sessismo dei media e all’indebolimento della visione che vuole l’uomo come “virile” e la donna “femminile” ad ogni costo. Ma non solo: cambia la richiesta di aggregazione, non più verticale, basata sull’acquisizione di diritti per una data fetta della società, ma orizzontale. Una scelta di tutti, per tutti, che richiede lo sforzo e la volontà di un’intera popolazione, senza specifiche di gender. Come, se volete e a modo loro, hanno fatto lei, lei, ma anche lui, e anche loro, e come innumerevoli altri uomini, donne ed esseri umani fanno ogni giorno.

E se non voi, chi?
E se non ora, quando?