PERCHÉ #TOKYO2020 È UN EVENTO CHE TUTTI I BRAND DOVREBBERO SEGUIRE
Ci siamo: domani, il 23 luglio, I Giochi della XXXII Olimpiade prenderanno il via a Tokyo, in un’edizione tra le più insolite nella storia dell’evento. Già, perché proprio come il Campionato Europeo di Calcio dalla cui ombra stanno emergendo, questi Giochi entrano in campo con un anno di ritardo. E lo faranno nel contesto di un paese in stato d’emergenza (da poco prolungato fino al 22 agosto) e in stadi senza spettatori.
Ciononostante l’interesse per l’evento non vacilla: secondo una ricerca YouGov, otto italiani su dieci dichiarano che guarderanno almeno in parte l’evento, mentre su Google i principali trend associati crescono con l’avvicinamento della data di partenza (con un picco nel mese di giugno).
Lo spazio che i Giochi si ritaglieranno nel consumo mediatico delle proprie audience rendono #Tokyo2020 un evento da seguire per tutti i brand appartenenti alla sport industry o con degli elementi di pertinenza alla stessa. E questo nonostante le imposizioni rigide della Rule 40, lo scudo legale del Comitato Internazionale Olimpico creato per scoraggiare l’Ambush Marketing.
Eppure le Olimpiadi non sono solo un altro evento sportivo e anche i brand che non vengono dal mondo sport dovrebbero seguirlo con attenzione.
Lo sport è uno specchio della società in cui viviamo e le Olimpiadi rappresentano l’esempio d’eccellenza di questa dinamica. Da sempre, sono prima di tutto un evento culturale in cui si incontrano le storie del nostro tempo.
Lo erano nel 1936, quando Jesse Owens diventava il primo atleta americano nella storia a vincere 4 medaglie d’oro sotto gli occhi della Berlino nazista, stabilendo anche un record destinato a manteneresi per 25 anni nel salto in lungo. Lo erano nel 1968, quando l’inizio dei Giochi nella Città del Messico si stagliava contro il sangue versato dalla repressione violenta di proteste studentesche e quando Tommie Smith e John Carlos alzavano un pugno guantato di nero durante l’inno della loro nazione. E lo erano nel 2014 a Sochi quando una serie di ONG tra cui Human Rights Watch portavano all’attenzione del CIO il contesto di repressione ed omofobia in cui si sarebbero svolti i Giochi invernali in Russia dopo l’introduzione della Legge sulla propaganda gay.
Perfettamente inserite nella tradizione, anche queste Olimpiadi sono un incontro di storie. Sono storie che, oggi, si sviluppano primariamente non in TV o sui media tradizionali, ma sui social, a partire dall’annuncio ufficiale del rinvio a marzo dell’anno scorso. Ma lo stesso vale anche per le storie individuali che gravitano attorno all’evento e che in passato non avrebbero avuto la stessa opportunità di amplificazione. Come quella della nuotatrice australiana Madeline Groves, che ha usato i suoi profili per annunciare la decisione di ritirarsi dalle qualifiche per Tokyo 2020, citando tra le motivazioni una diffusa cultura misogina e abusiva ai livelli alti della competizione sportiva. Sulle piattaforme, le notizie si sviluppano in argomenti di conversazione in cui emergono i punti di vista degli utenti su aspetti che vanno ben oltre alla sfera sportiva.
Good on you, Maddie! My teenagers and I are in awe of your strength and bravery. You’re making a material difference for women everywhere. Thank you!
— Ingrid Vaughan (@IngridVaughan) June 10, 2021
Ignore the haters – their support for creepy sex pests reflects on them, not you. #MyNewHero #FanGirl #FanFam
Se c’è una cosa che queste storie provano, è appunto che lo sport non è mai disgiunto dalle tematiche socio-politiche del presente di cui è parte, soprattutto non nella percezione delle persone che lo seguono. Secondo uno dei key insights del report The Sports Playbook di GWI, che aggrega dati su abitudini, interessi e punti di vista degli appassionati di sport in tutto il mondo, infatti:
“Sport is no longer apolitical; it has a responsibility to listen to fans and be a platform for progressive change. This means fighting for equal rights, supporting the community, and promoting sustainability. The call is coming loudest from society’s youngest fans […].”
Sono nozioni che naturalmente valgono anche per la comunicazione di brand al giorno d’oggi: se vuole essere rilevante per le proprie audience, deve essere consapevole di quelli che sono i valori che le muovono e delle storie della nostra contemporaneità che esemplificano quei valori.
Con l’obiettivo di approfondire meglio questo e altri aspetti che gravitano attorno a queste Olimpiadi, a poche ore dall’inizio dell’evento, abbiamo voluto raccogliere le principali storie di #Tokyo2020.
1. STORIE DI CONTESTO
Per la prima volta nella storia dell’evento, le Olimpiadi si terranno senza spettatori, in un Giappone la cui popolazione vaccinata è al 30%. La diffusione del contagio nel paese e all’interno dello stesso villaggio olimpico continueranno a porre il rischio dell’annullamento all’evento, anche dopo l’inizio dei Giochi. Spogliati dalla cerimoniosità che un pubblico fisico garantirebbe, ai Giochi rimane l’essenziale: la competizione pura e le persone che parteciperanno. E proprio questi due elementi sono al centro di una serie di altri grandi primati.
Il primo è stato dichiarato ad inizio anno dal CIO:
“With female athlete participation of almost 49 per cent, the Olympic Games Tokyo 2020 will be the first gender-equal Olympic Games.”
Proseguendo nel comunicato, il Comitato elenca le misure a cui ha provveduto per garantire il concetto della parità di genere, tra cui il permesso dato ai comitati nazionali di avere due portabandiera, femminile e maschile, a rappresentare la propria nazione (per l’Italia saranno Jessica Rossi ed Elia Viviani). Gli sforzi del CIO e il vero significato di queste Olimpiadi per il progresso dei diritti femminili nella storia della competizione (e dello sport in generale) sono ampiamente discussi e hanno sofferto anche delle dichiarazioni sessiste che hanno portato alle dimissioni l’ormai ex-presidente di Tokyo 2020, Yoshiro Mori. Tuttavia, i cambiamenti di cui questi Giochi si fanno veicolo, seppur per certi versi ancora in superficie, sono indiscutibilmente parte di un movimento più ampio nel mondo dello sport, che si svincola (finalmente) dal dominio maschile. Con questo si apre un varco ad atlete, squadre e competizioni ma altresì ad audience meno sbilanciate dal punto di vista del genere, che potranno dare una scossa anche al modo in cui consumiamo lo sport in termini mediatici. E questo, infine, sarà un’evoluzione da monitorare attentamente da brand che potrebbero scoprire l’interesse sport come un’area importante in cui posizionarsi, laddove lo avrebbero escluso a priori per il loro target in passato.
L’altra grande area di innovazione storica di Tokyo 2020 riguarda invece il concetto di “sport” nella misura in cui accoglie o meno determinate discipline. Tra maggio e giugno si è svolta la Olympic Virtual Series, dedicata allo sport virtuale in cinque ambiti: baseball, ciclismo, canottaggio, vela e motorsport. Per ogni disciplina sono state coinvolte le federazioni internazionali di riferimento e gli sviluppatori dei giochi che supportano la competizione virtuale (per il motorsport, ad esempio, la FIA e Gran Turismo / Polyphony Digital, rispettivamente). Per mettere in prospettiva questa novità, è importante sottolineare che:
- La Virtual Series non è parte dei Giochi in maniera integrata. Non si vincono medaglie, quindi, e le discipline non sono riconosciute al pari di quelle fisiche. Ciononostante, l’ingresso a tutti gli effetti di una componente virtuale ai Giochi non è da escludere ed è anzi una possibilità contemplata per l’edizione del 2028 a Los Angeles, secondo la più recente versione della roadmap strategica rilasciata dal CIO a marzo.
- Le discipline coinvolte sono tutte versioni virtuali di sport fisici classici (e con l’eccezione del motorsport, tutti rappresentati anche a Tokyo 2020), non stiamo quindi parlando di un cross-over con il mondo eSports, di cui non c’è traccia nella forma di giochi come League of Legends, Counter-Strike, Valorant et al. Si tratta di una scelta consapevole del CIO, che per ora preferisce non allontanarsi da titoli sportivi in senso tradizionale.
Fatte queste premesse, l’esperimento è comunque degno di nota come segno del fatto che, nello sport, digitale e fisico non sono più destinati ad escludersi a vicenda, anche nelle sue manifestazioni più longeve ed autorevoli (forse anche più rigide), come le Olimpiadi.
La finale di motorsport dell’Olympic Virtual Series è andata in onda su YouTube in live streaming e – in generale – queste olimpiadi estive senza spettatori fisici vedranno invece un boost in termini di chi le seguirà online. Secondo il report dedicato di Amdocs, negli Stati Uniti l’insieme di streaming (28%), social (16%) e on-demand (15%) supera la tv via cavo / pay (43%) e quella pubblica (26%) come touchpoint per seguire Tokyo 2020. L’approccio multimediale degli spettatori sembra essere confermato anche in Italia, con over-index su Instagram, Twitter e YouTube per quanto riguarda gli utenti actively engaged tra l’audience delle Olimpiadi.
Sono dati fondamentali quando si considera che, oltre alla copertura delle attività in sé, il consumo mediatico di un evento sportivo oggi si arricchisce anche di una miriade di contenuti extra proprio nel digital, dove vengono pubblicati dalle pagine ufficiali delle competizioni (come nel caso di Tokyo 2020 che è su YT, IG, TW & FB) ma anche da squadre, partecipanti, etc.
Verosimilmente saranno questi player “ancillari” nella prospettiva del racconto sportivo tradizionale ad essere invece in prima linea nel dare voce a quelli che sono i temi extra-sportivi, in senso stretto, a scendere in campo accanto alle attività delle competizioni. È il caso dei canali delle Lionesses, usati di recente dalla squadra per annunciare la loro decisione di continuare ad inginocchiarsi prima del calcio d’inizio.
“We were all united in our decision to continue doing whatever we can to raise awareness of racism and discrimination in all its forms, standing in unity and solidarity with all those whose lives are affected.” 💪
— Lionesses (@Lionesses) July 15, 2021
La scelta trova il suo contesto nel dibattito attorno alla Rule 50, che dal 1968, in seguito ai gesti di protesta di Smith & Carlos menzionati in apertura, stipula che:
“No kind of demonstration or political, religious or racial propaganda is permitted in any Olympic sites, venues or other areas.”
La linea dura del Comitato può risultare in contrasto con quella che è la visione che hanno alcuni atleti partecipanti del loro ruolo dentro e oltre alla competizione pura. Nelle parole della martellista statunitense Gwen Berry:
“What I need to do is speak for my community, to represent my community and to help my community. Because that’s more important than sports.”
Il caso delle Lionesses sembra però rappresentare la possibilità di un compromesso, visto che, come sottolineato nel comunicato stampa dedicato della squadra:
“[…] recent clarification provided by the International Olympic Committee (IOC) in relation to Rule 50 […] now permits athletes to make gestures on the field of play, provided they are done so without disruption and with respect for fellow competitors.”
2. STORIE DI CHI CI SARÀ
L’arrivo alle olimpiadi rappresenta ancora il coronamento d’eccezione di un percorso sportivo per molti e la qualifica in sé ha tutti i requisiti per essere uno di quei tòpoi narrativi che ci fanno amare lo sport: l’impegno, il sacrificio, la conquista…
Anche a Tokyo 2020, le qualificazioni emozionanti non mancano. L’effetto che queste storie hanno sulle persone è dovuto al fatto che hanno sempre una rilevanza collettiva, anche quando sono circoscritte ad un individuo solo. Quando Sunisa Lee, età 18 anni, si è assicurata un posto nella nazionale di ginnastica artistica statunitense, con standing ovation e un punteggio complessivo più alto addirittura della compagna di squadra e campionessa olimpica in carica Simone Biles, è stato un traguardo il cui significato profondo si estende oltre alla sua sfera personale. La ginnasta infatti sarà la prima atleta di origini Hmong-Americane a partecipare ad un evento olimpico.
La comunità Hmong, originariamente proveniente dal Laos e stabilitasi negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘70, ha la sua concentrazione maggiore sul suolo americano a St. Paul, nel Minnesota, città natia della stessa Sunisa Lee. Storie come la sua e quella di Yul Moldauer, ginnasta della squadra maschile, nato a Seoul e naturalizzato statunitense, acquisiscono un rilievo particolare anche nel contesto degli episodi di violenza razziale che hanno portato alla nascita del movimento #StopAsianHate, perché rappresentano un richiamo alla riflessione per una società – globale, e non solo statunitense – sul rapporto complicato tra razzismo e sport.
Ci sono altri esempi di come il percorso di una singola persona diventi catalizzatore della nostra elaborazione collettiva di tematiche che ci dividono, tra chi sostiene e chi critica. A prescindere dal fatto che quella persona abbia l’intenzione o meno di fare della sua storia un argomento di dibattito per noi che la guardiamo dall’esterno. Per Laurel Hubbard, il pass per andare a competere a Tokyo 2020 tra le sollevatrici della categoria +87kg era prima di tutto un sogno che si realizzava dopo il recupero da un infortunio che lo avevo messo in dubbio, come espresso nella sua dichiarazione ufficiale:
“I am grateful and humbled by the kindness and support that has been given to me by so many New Zealanders […]. When I broke my arm at the Commonwealth Games three years ago, I was advised that my sporting career had likely reached its end. But your support, your encouragement, and your aroha carried me through the darkness.”
È stato l’unico commento rilasciato dopo la qualificazione dalla Hubbard, che in genere evita i riflettori. Assieme alle parole dette in un’intervista qualche anno fa, nel 2017, sottolinea però bene la visione che l’atleta ha del suo percorso:
“I’m not here to change the world.”
Eppure, volente o nolente, lo sta facendo. La sua partecipazione ha scatenato infinite discussioni che riempiono il vuoto lasciato dalla sua discrezione. Ma lo scontro di opinioni non avrà un impatto sulla partecipazione dell’atleta a Tokyo 2020, che viene difesa anche dal Comitato, che rimanda al proprio regolamento e a quello della International Weightlifting Federation, i quali determinano i criteri e requisiti del processo di qualificazione per atlete transgender:
“The athlete must demonstrate that her total testosterone level in serum has been below 10 nmol/L for at least 12 months prior to her first Competition”
Le regole, nello sport, non sono solo un apparato normativo, sono le fondamenta esistenziali di ogni disciplina. Praticare e seguire lo sport significa accettarle, perché senza quel comune accordo è caos. E per quanto queste regole non bastino da sole a cambiare la mentalità delle persone fuori e dentro quel pezzo di realtà circoscritta che è lo sport, sono comunque un punto di partenza imprescindibile per stabilire e garantire un diritto.
3. STORIE DI CHI NON CI SARÀ
Tokyo 2020 saranno anche le olimpiadi di chi ha rinunciato o di chi è stato trattenuto dal farne parte. A cominciare dagli spettatori, il cui tifo rimarrà circoscritto ai loro salotti (o a quello di Scottie Pippen), ai like e ai commenti sui social. Pesa quanto la loro assenza quella di una lunga lista di atleti che ha lasciato perdere quest’anno, tra cui Serena Williams, la squadra sollevamento pesi del Samoa e l’intera delegazione nordcoreana.
Ma la pandemia non è l’unico deterrente per chi sceglie di non partecipare, come illustra il caso di Madeline Groves già citato in apertura. La nuotatrice australiana, che ha collezionato due argenti a Rio nel 2016, è da tempo impegnata nel dare voce agli aspetti oscuri dell’esperienza che vivono i top atleti. La decisione di non partecipare a Tokyo 2020 è anch’essa una denuncia di chi e cosa rendono questa esperienza malsana. Nelle parole della Groves:
“My decision is partly because there’s a pandemic going on, but mostly it’s the culmination of years of witnessing and ‘benefitting’ from a culture that relies on people ignoring bad behavior to thrive. I need a break.”
Un gesto estremo, quando è visto nel contesto della narrazione sportiva tradizionale, che pone il raggiungimento dell’obiettivo – e quindi le Olimpiadi come climax assoluto di questo tragitto – come il solo e unico focus dell’atleta. Una scelta inevitabile, invece, dalla prospettiva evoluta di questa figura, che oggi, come sottolineava in maniera così limpida Gwen Berry, ha una concezione diversa del suo ruolo e delle sue priorità: portavoce di una comunità, prima, e poi atleta. È interessante che ciò non leda affatto l’importanza dei Giochi al giorno d’oggi, quando un rifiuto alla partecipazione può ancora trasformarsi in una piattaforma per generare consapevolezza. Di nuovo, debilita solo l’argomentazione di chi li vuole avulsi dalle preoccupazioni del proprio tempo.
In fondo, se invece lo fossero, a nessuno importerebbe di quello che succede lontano dai momenti della competizione. A nessuno importerebbe del fatto che Sha’Carri Richardson, uno dei più grandi talenti di velocità al mondo e favorita per la medaglia d’oro a Tokyo, non correrà per la sua nazione dopo essere risultata positiva alla cannabis. Le regole sono le regole, nel bene e nel male, e chi si droga non può competere. Ma la verità è che non è così semplice. La storia della Richardson è molto più di una parabola anti-doping, perché contiene in sé un insieme complesso di temi che ci interessano in qualità di membri di una società e non solo di appassionati di sport: ad esempio la percezione mutevole che abbiamo di una sostanza come la marijuana e del peso politico-sociale che porta con sé questa percezione. E, come con Madeline Groves, le domande su cosa significa quando il nostro concetto di atleta eclissa quello di umanità.
I am human
— Sha’Carri Richardson (@itskerrii) July 1, 2021
Così, anche le assenze di #Tokyo2020 fanno parte del suo racconto ed esemplificano quella dinamica così unica nello sport: esperienze personali che si trasformano in simboli per la collettività e che ci spingono a confrontarci con la realtà che ci circonda.
IN CONCLUSIONE…
Olimpiade dopo olimpiade, come con tutte le tradizioni, ci chiediamo se i Giochi sono ancora rilevanti. Nell’opinione di chi scrive, lo sono perché racchiudono in sé tutti i movimenti importanti nel mondo dello sport al giorno d’oggi:
- Mettono in mostra e celebrano non solo le prestazioni atletiche eccezionali di individui in tutto il mondo ma anche i nostri valori, o i dibattiti su quali essi siano, in un mondo che lavora e collabora continuamente alla loro ridefinizione.
- Danno particolare rilievo all’importanza che hanno oggi individui a lungo discriminati e spinti ai margini di questo mondo per il futuro dello sport, con la crescita della partecipazione femminile, di persone transgender e quindi anche l’investimento sull’attrattiva per nuove audience.
- Hanno fatto un timido passo verso quella che già altrove è riconosciuta come una contaminazione imprescindibile tra sport fisico e virtuale.
- Come tutti gli eventi sportivi al giorno d’oggi, verranno consumati e seguiti anche attraverso contenuti che arricchiscono ed estendono la loro portata fuori dalla copertura su canali tradizionali, dallo streaming ai contenuti ancillari su pagine dell’organizzazione, delle squadre e di chi partecipa in prima persona.
Detto ciò, la fine di questa riflessione lascia il via libera all’inizio vero e proprio dei Giochi e, con esso, al proseguimento di tutte le storie di #Tokyo2020. Un’edizione che, già prima ancora di vedere la torcia raggiungere la sua destinazione nell’iconico braciere, sta già contendendo un posto particolare nella nostra memoria.