Long-form: misurare efficacia e impatto

Analisi
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Giuseppe Schiavone

Siamo arrivati al terzo e ultimo episodio di questa saga sul long-form.

Se vi siete persi gli episodi passati, qui un “Previously, on…”

Per chi invece è già ‘up to speed’, veniamo a questa terza parte. Una parte — crediamo — importante. Perché spesso la proposta di contenuti più lunghi e più concentrati su uno storytelling articolato viene portata avanti senza bene in mente uno standard di che cosa sia il successo. Per i video da 6’’ sappiamo precisamente che ‘faccia ha il successo’: a seconda dell’obiettivo del contenuto misuriamo il click-through rate o la percentuale di completamento del video o i like o le condivisioni etc.

Ma per un long-form? Ha senso, è giusto misurare la performance di questi contenuti con gli stessi strumenti, con lo stesso metro con cui misuriamo un video di 6’’ in animazione? La risposta che proviamo ad argomentare qui è che no, non è giusto e ci sono altri strumenti per capire se progetti incardinati su questo tipo di contenuti hanno funzionato o meno.

COME MISURIAMO LA PERFORMANCE DEI LONG-FORM?

Se continuiamo a considerare il nostro “long-form” come una “storia” (tenendo presenti gli effetti che questa può/dovrebbe avere sul fruitore), sarebbe utile affrontare la definizione di “performance” da un’altra angolazione. 

Ciò significa che, a differenza di quello che possiamo calcolare e misurare con link clicks o views, l’effetto di una storia su una persona dovrebbe esser considerato in relazione a istanze più “intime”. Potremmo dire che una storia funzioni quando ha un effetto su chi l’ascolta, quando è capace di cambiare un punto di vista (o quantomeno instillare il dubbio), di entrare nella testa e nel cuore del fruitore.

Di certo possiamo misurare la “performance” di un long-form analizzando quante persone possono aver letto / guardato / ascoltato il contenuto, quante si siano soffermate sul determinato contenuto per quanto tempo. Possiamo anche analizzare quanti abbiano mostrato interesse per un determinato prodotto dopo esser stati esposti a una delle nostre “storie” e quanti poi siano arrivati a comprare effettivamente il determinato prodotto. Ma se parliamo di “performance” della storia da un punto di vista più prettamente psicologico e culturale, l’approccio analitico al tema cambia. 

L’antica arte dello storytelling aveva fra i suoi compiti, quelli di affrontare taboo, di insegnare cosa fosse giusto o sbagliato, di dare indicazioni su comportamenti da adottare in determinati contesti. Jack Zipes che si è occupato dell’evoluzione delle fiabe e del loro ruolo sociale e politico nei processi di civilizzazione, nota come queste spesso assumano la forma di “meme” nel nostro cervello, divenendo input per rappresentazioni sociali. In quest’ottica, il grado con cui tali rappresentazioni sociali si affermano nel cervello di una persona (ed hanno un effetto sul comportamento) potrebbe definire il successo (la performance) di una storia specifica. 

Joseph Campbell ricorda ad esempio come mito e religione siano stati in grado di veicolare significati con successo. “I vecchi maestri — ricorda lo studioso — sapevano quel che dicevano”. E una volta che abbiamo imparato a leggere il loro linguaggio simbolico — continua — non ci serve più talento di quello di un antologista per ascoltare il loro insegnamento. 

I contenuti e le rappresentazioni sociali, le pratiche, gli usi, i costumi, possono costituire materiale d’analisi per constatare / smentire il successo di determinate storie, permettendoci di documentarne la “materializzazione” nei rispettivi contesti culturali.  

Se volessimo analizzare più “intimamente” se una storia ha “funzionato”, sarebbe certamente utile considerare approcci etnografici; approcci che cerchino di comprendere i vari “perché”, permettendoci di “negoziare” i significati che ogni storia ha per ogni soggetto, in ogni specifico contesto culturale. Questo di certo implicherebbe un processo d’analisi più lungo, ma — allo stesso modo del processo di fruizione di una storia — ci permetterebbe di andare a fondo nell’interpretazione. 

Come misuriamo l’effectiveness di una storia dunque?

Analizzando il senso che ogni storia ha per il soggetto, il valore locale che una storia può assumere per una rispettiva comunità; analizzando quanto una storia sia stata “digerita” e assimilata e quanto i suoi codici siano entrati a far parte del comportamento del fruitore. Di sicuro possiamo considerare questo approccio analitico lungo e complesso, ma tale approccio ci permetterebbe tuttavia una comprensione consapevole e profonda.

E se è così che si misura il successo di una storia lunga, allora, paradossalmente, la storia dell’attenzione deteriorata, delle persone che sono pesci rossi senza memoria, di un’umanità allo sprofondo, beh, paradossalmente è una storia di enorme successo. Ha cambiato e sta cambiando i modi in cui ci comportiamo e, un po’ come una profezia che si autoavvera, rischia di generare il mondo che presumeva di descrivere.

Questa, però è una storia, lo abbiamo detto, inesatta.

E quindi, cosa possiamo fare?

OUTRO: UN ‘MEA CULPA’ A NOME DELL’INDUSTRY

Nel corso degli anni l’intrattenimento (e possiamo considerare la pubblicità una forma di intrattenimento) ha colonizzato porzioni sempre più importanti della vita delle persone. Non è una novità esclusivamente ‘tecnologica’, diciamo.

Un gruppo di persone legge quotidiani cartacei su un treno, evitando di parlare con gli altri.

C’è questa foto, che gira ormai da anni, che mostra un vagone di treno pieno di persone col capo chino su dei giornali. In questo thread Reddit l’immagine è accompagnata dal titolo “All this technology is making us anti-social” con un chiaro riferimento alle istanze regressive di chi aggredisce l’uso dello smartphone come un malcostume insopportabile ed esclusivamente contemporaneo, bollandolo come il segno della fine della civiltà e quasi dei tempi.

La battuta è pretestuosa. Nessuno vuole parlare in treno — oggi o in passato — ed è il contesto a essere anti-sociale, oggi come ieri: ma un tempo chiunque si sarebbe sentito fuori luogo a leggere un giornale durante una cena tra amici, mentre oggi un’intera cena senza phubbing è un piccolo miracolo

Questo per dire che, in fondo, c’è una forma di continuità tra i modi in cui l’intrattenimento ha storicamente invaso gli spazi (il tempo, più che altro) privati delle persone: lo ha sempre fatto offrendo distrazione dal presente (da quello che è fisicamente presente, per spostare ‘spiritualmente’ le persone altrove: con qualcun altro, in qualche altro luogo—reale o di finzione). Un’offerta che progressivamente si è estesa a tutto, a qualunque presente, finendo per condannare la noia e, in una misura, consolidando uno standard irrealistico per la distribuzione di informazioni utili, sensate o anche solo interessanti.

Insomma, se non è vero che le persone sono più disattente, non si può negare che hanno molte più cose da poter guardare, ovunque, in compagnia di chiunque e con qualunque strumento.

Contenuti brevi e immediati consentono di riempire gli interstizi, di utilizzare del tempo che una volta era inutilizzato (il tempo della noia, appunto). E questo non è necessariamente un male, sia chiaro. Anzi. Però forse, se smettiamo di usare l’alibi delle persone distratte, possiamo iniziare a pensare a modi nuovi e più proficui (utili?) di intrattenerle anche in quei momenti. Di modo che guardare lo smartphone non sia un momento di assenza, che non sia il dirottamento dell’attenzione su qualcosa che sta altrove, ma una maniera di esplorare mondi nuovi e approfondirli, in un senso — perdonate l’enfasi — viverli.

La promessa del web e poi del web 2.0 e dei social media era un po’ questa: rendere il nostro mondo più grande, collegandoci a persone e informazioni lontanissime e inimmaginabili. In parte, invece, è successo il contrario: siamo stati invasi noi, persone piccole, da tantissimi e microscopici frammenti di mondi che finiamo per non conoscere quasi mai bene.

Siamo partiti raccontando come da qualche tempo ci stiamo dicendo che la comunicazione di brand dovrebbe inserirsi in questo flusso ininterrotto di contenuti minimi con contributi ugualmente elementari, veicolando messaggi semplici e inequivocabili in meno di 6’’. E con molti brand lo stiamo facendo.

Lo abbiamo fatto.

E continueremo a farlo.

Perché serve anche quello. Perché se c’è anche solo una persona che ha bisogno di una borraccia termica da 3 litri o di uno stabilizzatore per uno smartphone da 9 pollici o di una racchetta elettrica per zanzare enormi è giusto interromperla e farle sapere che c’è qualcuno che quella borraccia, quello stabilizzatore o quella racchetta ce l’ha e glielo può vendere.

Ma questa, speriamo di averlo spiegato, è solo una modalità d’uso dei social network.

Perché le persone non sono ‘hard-wired’ alla fruizione esclusiva di contenuti brevi e impervi — perché vuoti — all’analisi.

Spesso, questo lo abbiamo mostrato nel secondo episodio, le persone spontaneamente leggono, ascoltano, guardano e conversano su argomenti che richiedono tempo e attenzione. Producono e consumano contenuti lunghi.

Quello che abbiamo provato a dimostrare qui è che c’è un posto, sui social network, per questo secondo tipo di contenuti.

È un posto che può essere legittimamente occupato anche dai brand.

Perché chi usa questi canali già lo fa per approfondire. E sta un po’ a noi resistere a miti o verità frettolose e provare a lavorare nella direzione di un’idea migliore, in un senso più progressiva, delle persone a cui parliamo.   

Non si tratta di abbandonare quello che sappiamo fare, ma di provare a fare qualcosa di più. Con un gesto di fiducia verso chi legge, ascolta, guarda, scrive, dall’altra parte dello schermo.
Provando a credere davvero che non sia un pesce rosso, ma una persona più o meno come noi.