Overt Privacy: da grande palcoscenico a stanza privata – Think Forward 2020
Questo post fa parte di una serie in cui vi raccontiamo le evoluzioni dei trend individuati all’interno del Think Forward 2020. Il primo “capitolo”, sul Social Self Care, lo trovate qui.
A Novembre 2019 abbiamo iniziato a raccontarvi la nostra visione sui macro trend che avrebbero impattato i brand nel 2020; vi abbiamo parlato di regole che vengono riscritte, o scritte ex-novo, per quanto riguarda la maniera di “vivere” il nostro rapporto con internet e con i social.
Nel perimetro di queste nuove regole, alcune definite dalle piattaforme, altre auto-generatesi all’interno delle community di riferimento, è fondamentale per i brand sapersi muovere per diventare o continuare ad essere elemento attivo e di stimolo, e non distruttivo, all’interno delle conversazioni e delle dinamiche sociali (pre)esistenti.
Oggi vi parliamo di uno dei comportamenti utente più affascinanti che abbiamo visto delinearsi negli ultimi tempi, vale a dire quello derivante dall’esplicito bisogno da parte degli utenti di un ritorno alla sfera privata, ai porti sicuri. Abbiamo chiamato questo need, ed i comportamenti che lo delineano e ne conseguono, Overt Privacy.
Le persone, in breve, sono stanche di essere seguite, sorvegliate, e stanno via via riprendendo il controllo delle proprie digital footprints. Questo avviene per “proteggersi” dalle piattaforme, dai brand, spesso anche dai propri circoli di conoscenze più esterni.
Siamo tutti a conoscenza della posizione di Facebook: “The future is private“. Le preoccupazioni sulla privacy non sono naturalmente niente di nuovo, ma nel corso del 2019, ed in questo inizio di 2020, abbiamo visto delle azioni anche importanti in diverse direzioni, che ora vi raccontiamo.
Paradossalmente il comportamento meno interessante è forse quello più netto. “Non ne posso più, me ne vado“. Sicuramente efficace, ma quasi troppo facile.
Ci sono evidenze di comportamenti più “di compromesso”, da un certo punto di vista più maturi. Una scelta può essere quella di lasciarsi alle spalle il monopolio di “Big Social” a favore di piattaforme più piccole o comunque meno mainstream. Anche qui, niente di nuovo, per chi ha l’età per ricordarsi del tentativo di Path (RIP), o degli early days di Ello.
Più di recente, ma sulle stesse premesse di Path ed Ello (vale a dire tutela della privacy, e un environment ad-free), si è parlato di WT:Social, piattaforma creata dal fondatore di Wikipedia, Jimmy Wales. La promessa è far scegliere in autonomia all’utente la tipologia di contenuto che andrà a vedere, senza problemi di privacy o di retargeting aggressivo.
Abbiamo anche visto uno shift verso piattaforme di messaggistica come Slack (ad esempio per parlare dei commercial del SuperBowl) o Discord. Affascinante in questo senso il lavoro di Joshua Collins, candidato al Congresso per il distretto di Olympia, WA, che a 26 anni e forte di discreto following tra Instagram, Twitter e TikTok, decide di chiedere senza mezzi termini il supporto della sua community. Come? Con donazioni sul suo server Discord, che è via via diventato l’hub principale della sua campagna e per il confronto con i suoi sostenitori e volontari.
Le piattaforme “mainstream” hanno anche reagito in maniera propositiva a questi atteggiamenti e comportamenti, come nel caso di Instagram che già dalla fine del 2018 consente agli utenti di far visualizzare le proprie stories ad un gruppo di Amici più stretti, e che dalla fine del 2019 ha rilasciato Threads, app dedicata proprio alla condivisione di stories e DM con un gruppo ristretto di contatti. Nella stessa direzione va il fenomeno dei Finstas, cioè Fake Instagram (profile)s, già analizzato all’interno del macro-trend United and Divided del nostro studio sulla Generazione Z.
Sempre lato piattaforme, è di Novembre la notizia della rimozione di Ghostly e LikePatrol dagli app store principali, in seguito alla minaccia di cease and desist da parte di Instagram. Le due app consentivano di tracciare rispettivamente dettagli di profili privati ed il comportamento di altri utenti sulla piattaforma, in netto contrasto con la direzione intrapresa da Facebook.
Tornando agli utenti, altro comportamento estremamente interessante, e ancora una volta identificato su Instagram, è relativo alla creazione di profili “di gruppo” da parte di gruppi di teenager, esplicitamente finalizzati in questo caso ad evitare di essere “vittime dell’algoritmo”. In breve, attraverso un trick legato al reset delle password, diversi utenti possono essere collegati allo stesso profilo da location diverse, ognuno comportandosi in totale autonomia sia dal punto di vista del browsing sia del posting. L’effetto? La piattaforma “non sa” che contenuti rilevanti somministrare all’utente in organico o in sponsorizzazione.
Simile per finalità è il Voldemorting: non nominare direttamente qualcuno o qualcosa. Non ci interessa in questo caso la storia del fenomeno e del passaggio da You-Know-Who e He Who Must Not Be Named a Cheeto. Già almeno una decina d’anni fa infatti, ad esempio sui forum di compara-prezzi, deal hunters et similia, alcuni utenti scrivevano i nomi dei brand o degli store con dei “misspelling volontari” nel caso in cui i brand stessi tracciassero i suddetti forum con strumenti di social listening per capire se gli fossero sfuggiti dei deal troppo vantaggiosi per gli utenti. Interessa invece l’evoluzione della motivazione di questo comportamento nei giorni nostri: se non scrivo esplicitamente il nome di un brand (o di una celebrity), non verrò targetizzato da adv potenzialmente indesiderato (o insultato da specifiche fandom).
Stiamo vivendo un’epoca di consumatori maturi, anche nelle fasce più giovani, che rimarranno decisori d’acquisto per un lungo periodo, e le sfide sono evidenti. È già e sarà sempre più importante per i brand essere non solo consapevoli di questi comportamenti e delle motivazioni che le guidano, ma comprenderli senza preconcetti o pregiudizi, al fine di non farsi mettere in una “blacklist virtuale” a breve o lungo termine.